A Napoli è Natale con la minestra maritata, ecco cosa si mangia in Campania e in Penisola Sorrentina
Dimenticate le mode passeggere come le pennette al salmone e l’insalata russa anni ’80: il Natale a Napoli riscopre il gusto autentico della tradizione. A tavola, come riporta Luciano Pignataro de “Il Mattino”, due protagonisti indiscussi: la minestra maritata, simbolo del legame profondo con la terra e le radici contadine, e, a sorpresa, il sontuoso sartù di riso.
Questi piatti non sono semplici ricette, ma un tuffo nel passato, un omaggio ai grandi ricettari napoletani di Vincenzo Corrado e Ippolito Cavalcanti, pionieri della cucina italiana moderna. Pensate che la prima ricetta della pasta al pomodoro, icona del nostro Paese, compare proprio nel trattato di Corrado. Il successo di queste pietanze nella ristorazione non è casuale: sebbene le abitudini cambino anche a Napoli, la memoria delle antiche tradizioni è ancora viva e palpabile.
Un viaggio tra i sapori delle feste
Se la Vigilia è un inno al mare, con baccalà, capitone, spaghetti ai frutti di mare e pesce al forno, il giorno di Natale celebra la terra. Salvatore Giugliano, chef del rinomato ristorante Mimì alla Ferrovia, conferma: “Non è Natale senza minestra maritata. La proponiamo anche durante l’anno, ma a Natale raggiunge il suo apice“. Questa zuppa, a base di erbe, ortaggi, verdure di stagione e un pezzo di carne “povera”, incarna l’essenza della cucina napoletana, da sempre legata al mondo vegetale. Un piatto antico e modernissimo al tempo stesso: antico perché nato in tempi di ristrettezze, moderno perché in linea con la crescente attenzione al consumo di vegetali, sia per motivi di salute, come già sottolineava Corrado due secoli fa, sia per le preoccupazioni legate agli allevamenti intensivi.
Accanto alla minestra, il sartù di riso evoca fasti e opulenza. Le sue origini affondano nell’epoca dei monzù, i cuochi di corte che diedero vita alla cucina “verticale”, spettacolare. E il riso, introdotto in Sicilia dagli Arabi, è un ingrediente radicato nella cultura gastronomica del Sud. “Il sartù è molto richiesto, soprattutto da asporto”, racconta Salvatore. “Portarlo intero a tavola è un vero spettacolo”.
Un coro di voci a sostegno della tradizione
La minestra maritata è il piatto irrinunciabile per eccellenza. Da Massimo Di Porzio di Umberto, storico locale di Chiaia, allo chef stellato Lino Scarallo di Palazzo Petrucci, fino a Paolo Barrale di Aria, tutti concordano. Persino lo chef stellato Peppe Guida di Nonna Rosa, pur citando anche il sartù, non può fare a meno della minestra, affiancata da baccalà fritto, pizza di scarola e zeppole. Da Sorrento a Pozzuoli, la minestra è un must anche per Nando Salemme dell’Abraxas. E per chi non ama le zuppe? Ci sono i cannelloni al ragù o le mafalde con la ricotta, un perfetto equilibrio tra l’austerità delle verdure e la gioia della pasta.
Impossibile lasciare la Penisola Sorrentina o Napoli durante le festività senza aver assaporato le delizie che imbandiscono le tavole in questi giorni speciali. Il Natale qui non è solo un evento culinario, ma un vero e proprio rito che affonda le radici in una ricca tradizione simbolica, scandita dai preparativi del cenone della Vigilia e del pranzo di Natale, momenti in cui ogni famiglia mette in mostra il proprio patrimonio gastronomico.
Un filo conduttore unisce tutte le case: la Vigilia è dedicata al pesce, mentre il pranzo di Natale celebra la carne.
Tra gli antipasti, un ruolo di primo piano spetta all’insalata di rinforzo, un’istituzione della cucina partenopea, composta principalmente da sottaceti e altri contorni semplici. Questa preparazione, un tempo non sempre apprezzata ma onnipresente sulle tavole, nasceva con lo scopo di “rinforzare” lo stomaco dopo la “magra” della Vigilia, quando il consumo di carne era vietato.
Altro protagonista indiscusso della Vigilia è il capitone fritto, un piatto irrinunciabile che cela una simbologia curiosa. La sua forma serpentina ha portato la cultura napoletana ad associarlo fin dall’antichità alla figura di Satana. Uccidere e cucinare il capitone diventa così un atto simbolico di sconfitta del male.
Il trionfo del dolce
E per concludere in dolcezza? Sabatino Sirica, decano dei pasticcieri napoletani, non ha dubbi: roccocò, raffioli, mostacciuoli, ma soprattutto gli struffoli, un dolce dalle antiche origini greche (il nome deriva da stróngylos, “di forma tondeggiante”). E il panettone? Ormai è diventato anche un po’ napoletano, grazie all’abilità di tanti pasticceri, da Alfonso Pepe a Sal De Riso.
Fonte : PositanoNews.it