Il riconoscimento dell’Arte del pizzaiolo napoletano è uno dei 35 fascicoli al vaglio dell’Unesco in queste ore a Seul. Arriva sull’onda lunga di una mobilitazione popolare senza precedenti nei quali rientrano la raccolta di due milioni di firme promossa dall’Associazione Pizzaioli Napoletani, la Fondazione Univerde presieduta dall’ex ministro Alfonso Pecoraro Scanio, dalla Coldiretti e dal Cna. Una raccolta a cui hanno partecipato in tanti e che è stato il motore di un fascicolo che ha avuto non poche insidie politiche e burocratiche. Una mobilitazione fatta di mille idee e iniziative, come il contest #pizzaUnesco promosso dal sito Mysocialrecipe di Francesca Marino a cui hanno preso parte 320 pizzaioli da tutto il Mondo. Non è stato un iter facile: inizialmente infatti si era pensato di proporre la Pizza Stg come Patrimonio immateriale dell’umanità riconosciuto dall’Unesco, ma si è visto ben presto che non si sarebbe andati lontano tenendo la barra in questa direzione perché considerata una operazione troppo commerciale. Quindi il ragionamento si è spostato sull’Arte del pizzaiolo napoletano, qualcosa che può sembrare difficile da definire e che invece è nel sangue di tutti quelli che lavorano vicino a un forno a legna: la lievitazione dell’impasto che tiene conto delle variabili legate alla temperatura e alla umidità, il gesto di stagliare i panetti, ammazzare, estenderlo con la tecnica dello schiaffo, l’atto di cuocere la pizza in un forno pensato per questo prodotto con la bocca a mezzaluna che consente di arrivare vicino ai 500 gradi. Tutti gesti che non si imparano in laboratorio o in improvvisate università, ma che sono parte della tradizione di un popolo che è stato capace di fondere acqua, farina, olio, pomodoro e origano in qualcosa che non è la somma di questi prodotti, bensì un cibo nuovo, unico, tipico e inconfondibile. Un sapere che si è sedimentato in tre secoli, che non poteva non nascere in una città come Napoli, grande, grandissima, dove il problema sino agli anni ’60 è stata la fame atavica, una gastronomia improntata non sulla carne ma sul desiderio di carne (cosa sono, altrimenti, ragù e genovese, o le polpette di pane o la cultura delle interiora?). Tutto questo è approdato all’Unesco in una maniera meno facile del previsto perché i primi da convincere sono stati proprio gli italiani. C’erano infatti altre candidature e non tutti erano convinti nel sostenere le ragioni della pizza in sede internazionale con varie motivazioni. Superato lo scoglio nazionale c’è stato il confronto in sede Unesco, un lavoro diplomatico lungo e difficile per conquistare i voti, come quelli degli stati africani, che guardano sempre con sospetto alle iniziative occidentali. Il fascicolo è stato discusso a novembre a Parigi in sede di commissione ed è stato dato parare favorevole, ma Pier Luigi Petrillo, il capo della delegazione italiana a Seul che ha seguito tutto il dossier, non si stanca di lanciare messaggi di prudenza, sottolineando come sino alla proclamazione ufficiale prevista per sabato 9 nulla è certo: «Sono rigorosamente da evitare – ha scritto in una nota ufficiale – perché potrebbero essere dannosi per il nostro elemento, ogni iniziativa e ogni comunicazione che veda come protagonista la pizza e non il pizzaiolo, che consista in distribuzione di pizze o nella esaltazione dei prodotti piuttosto che degli uomini che manipolano quei prodotti. Come ho detto più volte la pizza non è candidata. L’Unesco non è una certificazione di qualità, non è una certificazione di origine, non è una lista di prodotti tipici. Ad essere oggetto di valutazione è l’espressione culturale di una comunità, quella napoletana». Bisogna evitare, conclude Petrillo, che si festeggi con una «pizziata» generale perché la Dieta Mediterranea stava saltando dopo la spaghettata in Campidoglio. Ma sappiamo che non appena ci sarà l’esito del voto sarà impossibile contenere la gioia in città come dei pizzaioli che sono andati a seguire l’iter a Seul, tra cui Antonio Pace dell’Avpn e Sergio Miccù dell’Apn. E la città si ritroverà ad aver vinto qualcosa di unico che la rende famosa ovunque insieme alla sua musica: quel cibo povero che è sempre piaciuto anche ai ricchi. La pizza, il simbolo dell’unica volta in cui le classi sociali più deboli hanno vinto costruendo sulle loro abitudini l’identità di tutta la comunità. Già, perché a Napoli, almeno a tavola, hanno vinto i poveri. (Luciano Pignataro – Il Mattino)
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