La Domenica delle Palme in Costa d’Amalfi e la Quaresima Buttunata. Due tradizioni raccontate la prima da Sigismondo Nastri sul suo profilo facebook, la seconda da Mario Amodio su Il Mattino di Salerno tutte da leggere.
LA DOMENICA DELLE PALME
Non mi dite, per piacere, che sono cose… fritte e rifritte. Se le tradizioni rimangono, per nostra fortuna, inalterate, mi sembra normale che non le si possa raccontare in modo diverso anno dopo anno. Stabilito questo principio, parto – come si sembra giusto – da domani, domenica delle Palme. Quando nelle chiese – ma, soprattutto, fuori dalle chiese – si procederà alla benedizione dei ramoscelli d’olivo e, appunto, delle palme. Un rito che avveniva, una volta, durante la celebrazione della messa e che poi s’è preferito spostare all’esterno, per rievocare, con un corteo processionale, l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme. Farò benedire anch’io un ramoscello d’ulivo, non tanto per scambiarlo con parenti e amici (cosa che pure farò), ma da utilizzare a Pasqua, insieme all’acqua santa (che troverò in parrocchia), per la benedizione della mensa. Credo che avvenga ancora in molte case.
Ma torno alla domenica delle Palme. In Costiera siamo abituati alle belle palme intrecciate, come solo a Conca dei Marini (e a Praiano, ma pure a Sorrento, se ricordo bene) sanno fare. Palme lunghissime – fino a quando ce lo consentirà quel divoratore di palme chiamato punteruolo rosso… -, altre più corte, piccolissime, a forma di panierini, barchette, croci, addobbate con fiori, coccarde e, naturalmente, rametti d’olivo. Una volta benedette, ai miei tempi, venivano esposte al balcone o alla finestra di casa, rimanendo lì fino alla Pasqua dell’anno successivo. Mi dicono che se ne vedono sempre di meno ed è un vero peccato.
Quando ero ragazzo, ad Amalfi, le compravamo dai pescivendoli (Masaniello, Paolillo sotto ‘a Sciulia, ecc.). Addirittura c’era chi le chiamava “pesci”. Chiarisco, a scanso di equivoci, che la tradizione di queste palme non è soltanto nostra. E’ alquanto diffusa su tutto il territorio nazionale. Ogni anno ne viene donata una anche al Papa.
Sigismondo Nastri
Ridotte all’osso le attività di cucina nei giganteschi e prodigiosi locali dei conventi, tutti formati da enormi rastrelliere per le teglie e da cappe smisurate collocate a qualche metro dai fornelli, almeno fino alla Pasqua il mestolo d’oro veniva infatti affidato alle casalinghe. Soprattutto prima che le cinque settimane di digiuno, utili ad assolvere i peccati di gola, culminassero nella grande liberazione pasquale. A primeggiare sulle tavole imbandite era il «condimentum», ovvero strutto e carne di maiale presenti sia nella «minestra ammaritata» che nel «tortano ca nzogne e pepe». Una tradizione tipicamente costiera che sopravvive tutt’ora al tempo e all’insidia di nuove mode. Ma partiamo dal cosidetto tortano, una produzione tipica della zona e totalmente diverso da quello napoletano. Tale alimento, di forma tonda e ricoperto di lardo salato ed erbe aromatiche come il rosmarino, si consumava caldo. Poi l’estro culinario della zona ha creato i tortani, impastati con sugna, cigoli, pepe che, con l’aggiunta di qualche uovo incastrato sulla superficie, arricchiscono ancora oggi gli antipasti pasquali fatti di formaggi e soppressate. Ma il piatto forte della tradizione costiera è senza dubbio l’agnello brodettato, meglio conosciuto come «’o beneritto». Presente da secoli nel banchetto pasquale di contadini e padroni, l’agnello a zuppa continua ad essere una costante delle tavole imbandite e assume questo nome per la presenza delle foglie di alloro aggiunte a cottura ormai ultimata. Questi animali costituivano il dono che i coloni offrivano ai padroni in occasione della Pasqua. Ed è assai probabile che le loro donazioni abbiano influito nell’accreditare la tradizione culinaria, ancora oggi in uso in moltissime famiglie, di consumare a Pasqua l’agnello brodettato e speziato. La preparazione di questo piatto è estremamente semplice: dopo aver fatto soffriggere la cipolla nella sugna si aggiunge l’agnello tagliato a pezzi, preceduto da un dito d’acqua salata. Portare a ebollizione e aggiungere se occorre altra acqua bollente. A cottura ultimata sollevare la teglia dal fuoco e completare l’opera unendo uova sbattute, caciotta e caciocavallo grattugiati, pepe e foglie d’alloro. Maritata si, ma con la carne di maiale. E’ la minestra di Pasqua, il cui «condimentum» in Costiera Amalfitana varia addirittura di borgo in borgo. Già, perché l’usanza di questi luoghi vuole che alle delicate verdure romaniche si aggiungano diverse varietà di carni come noglie, pezzenti, stomaco e gamboncello. E ciascuna di queste ancora oggi conserva una sua paternità geografica riconducibile alle rivalità tra comuni, la più nota delle quali era in atto tra Maiori e Tramonti. E mentre all’epoca si litigava su come maritare la minestra, c’era chi pensava a far durare fino all’estate quei nobili antenati del cotechino fatti con carni sanguinolente e cartilagini. Tutte conservate con sale, pepe e semi di finocchio selvatico. E’ questo il caso di Scala dove almeno uno dei gamboncelli, doveva durare almeno fino al 10 di agosto, giorno della festa patronale di San Lorenzo. La pietanza d’occasione, manco a dirlo, era la minestra ammaritata, così come nel giorno di Pasqua. Semplici e deliziosi sono poi i «casatielli» pasquali, morbidi dolcetti fatti di leggero pan di spagna glassato con zucchero e minuscoli confetti colorati detti «diavolilli», prodotti ancora oggi dalla storica pasticceria Pansa ad Amalfi. E’ questo, ormai da qualche secolo, il dolce tipico della Costiera, insieme con le pecorelle di zucchero da divorare durante le scampagnate del lunedì dell’Angelo. Stando a quanto raccontava l’archeologo del gusto Ezio Falcone, quello della Pasquella è il giorno del timballo di maccheroni fatto con ragù di cularda di manzo e maiale, polpettine, mozzarella, salame, uova, sugna e bucatini. Il tutto raccolto in una pasta frolla da un centimetro. Questo a Pasqua. E nei giorni di digiuno? Se i riti penitenziali frenavano la laboriosità di monache e frati cistercensi, dalla tradizione popolare ecco spuntare zuppe di verdure e di legumi ma anche prelibati dolcetti come ad esempio i «quaresimali». Si tratta di piccoli biscotti fatti di mandorle e nocelle, impastate con solo olio.
E ancora oggi, intinti nel vino, sono prelibati.
Mario Amodio
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