Antonio Menna La storia è fatta di momenti. Cosa sarebbe il Gran Caffè Gambrinus, e…
Antonio Menna
La storia è fatta di momenti. Cosa sarebbe il Gran Caffè Gambrinus, e i suoi 161 anni di vita, senza ognuno dei suoi lavoratori, e ognuna delle ore passate da questi, giorno per giorno, a servire, lavorare, aspettare, pazientare, pulire, dire buongiorno e buonasera? In piedi, in divisa, col sorriso, la parola pronta e il gesto rapido: così, tazzina dopo tazzina, Giovanni Fummo ha costruito, con i suoi colleghi, la storia del bar più prestigioso di Napoli, che ieri aveva la sua bandiera listata a lutto e un velo di malinconia nelle sale. Se ne è andato, infatti, a 75 anni, il barista dei record. Aveva calcolato – per difetto – ben 15 milioni di caffè fatti nella vita. Per venti anni di seguito, capo macchinista proprio nella sala di piazza del Plebiscito. Ma prima ancora barista anche in altre città, fin dall’età di 7 anni. Sessanta anni di fila in un bar. Quasi una carriera militare, fino al grado più alto. Il generale della macchina da caffè. Ne era così orgoglioso che, da quando era andato in pensione, pochi anni fa, sui passi di una inesauribile nostalgia, a volte tornava dai Colli Aminei, dove era andato a vivere, solo per ritrovare i suoi luoghi, quegli spazi, i compagni di lavoro di una vita.
LA STORIA
«Era la storia del Gambrinus – ricorda Antonio Sergio, uno dei proprietari della sala – Giovanni era un ragazzo dei Quartieri Spagnoli, a sei/sette anni cominciò a fare il garzone; doveva contribuire a portare i soldi a casa. Ha cominciato la sua lunga carriera di assistente al macchinista. Poi secondo macchinista, infine primo macchinista. Una vita vissuta nel caffè. Un giorno insieme decidemmo di provare a contare quanti ne aveva fatti. Arrivammo, allora, a 12 milioni di tazzine. Poi ha continuato fino a 15 milioni». «È stato un maestro, un padre, un amico, un barista come lo si intendeva in passato», aggiunge Michele Sergio, figlio di Arturo. La voce è rotta dall’emozione. Nelle sale dello storico caffè si sente la commozione, e non è rituale né esagerato, perché ogni volta va via qualcosa che muta il segno del tempo. Non solo una persona ma un corredo di identità perdute. E l’occasione diventa lo spunto per riflettere su quello che era e quello che è stare in piazza, al banco di un bar, lavorarci, accogliere clienti. «Io l’ho conosciuto che era già un nostro veterano – dice Michele Sergio – ed ero ammirato dalla determinazione. Quella generazione era così: prima il dovere, poi il resto. Un attaccamento al lavoro e al locale come se fosse una questione personale. Cose così non se ne vedono più».
LA GRANDE FESTA
Nove anni fa, proprio Fummo, all’epoca 66 anni, festeggiò al Gambrinus dodici milioni di tazzine. Il locale si addobbò a festa. Furono offerti caffè tutta la mattinata e Giovanni continuò ad armeggiare con la sua leva. In quella circostanza, decine di aneddoti, che oggi ritornano alla memoria, una nuova memoria rinnovata. Raccontava dei quattro presidenti della Repubblica che aveva conosciuto. Il primo, Oscar Luigi Scalfaro, che descriveva come cortese e distaccato. Poi, Francesco Cossiga, espansivo e ironico. Poi Carlo Azeglio Ciampi, curioso di miscele e tecniche. Infine, Giorgio Napolitano, quasi di casa. Ma non solo gli italiani. A Fummo toccò anche di preparare un caffè specialissimo, non certo un american coffee, a Bill Clinton, arrivato a Napoli per il G7, e rapito dalla tecnica dell’espresso, dall’aroma, e anche un po’ dalla tazzina bollente. Caffè di pregio anche per Angela Merkel, Silvio Berlusconi. Più dei politici, però, potè Claudia Cardinale. A Napoli per girare un film di Pasquale Squitieri, l’attrice dopo aver assaggiato il caffè di Giovanni, si lanciò addirittura in un abbraccio, consegnando alla memoria dell’uomo un fatto che non avrebbe mai smesso di raccontare. «La mia vita l’ho passata a fare caffè – spiegò in quei giorni – e di tazzina in tazzina ho visto passare i giorni, le settimane, i mesi e gli anni miei e della mia famiglia. Per me il caffè è anche il metro del tempo». «Giovanni – ricorda Michele Sergio – era disponibile con tutti. Trattava ogni cliente alla stessa maniera. Questo, forse, era il vero tratto del barista di una volta. Sempre presente, professionale, sorridente. Oggi il mondo va veloce, ma quella generazione ha saputo raccontare il vero significato del caffè. Riti più lenti, condivisione, socialità. Un barista poteva confrontarsi con i presidenti fino alla persona
Fonte : PositanoNews.it