Sono emigranti, ma come non ne abbiamo mai visti: al posto delle valigie di cartone,…
Sono emigranti, ma come non ne abbiamo mai visti: al posto delle valigie di cartone, portano un bagaglio di conoscenze, ingredienti e infallibile istinto del gusto. La Michelin li ha ribattezzati “scuola campana del nuovo nord”: una compagine di giovani cuochi che hanno scalato i paralleli fino a conquistare strutture prestigiose in tutta Italia. Il movimento vale attualmente 12 stelle (ma allargando il conteggio alla Puglia la cifra sale), concentrate nel comparto dell’hôtellerie di lusso. Che si tratti di educazione familiare al gusto, immaginario gastronomico internazionale tutto spaghetti e fantasia, fame di riscatto o cultura dell’accoglienza, il movimento è imponente. Un po’ campagna di conquista, un po’ emorragia di talenti. Ma forse è proprio la dinamica della contaminazione a spuntarla.
Di solito sono cuochi che hanno lasciato presto casa per viaggiare e imparare, come Francesco Apreda, napoletano in forze all’Idylio di Roma. “Sono sempre contento di vedere colleghi campani che si fanno strada. Quest’anno a Piacenza per la stella mi sono trovato circondato da conterranei ed è stata una bella sensazione. Dietro c’è tanto spirito di rivalsa; il campano che va fuori casa, vuole mettere in atto quello che magari nella sua città natale per svariati motivi non è riuscito a fare. Poi ci sono l’umiltà, l’apertura al confronto e tanto spirito di squadra. Una grande capacità di adattamento, con quella dote di coinvolgimento che si tramuta sempre in buone iniziative e creatività”.
In Toscana ci sono Giuseppe Mancino al Piccolo Principe di Viareggio e Cristoforo Trapani alla Magnolia di Forte dei Marmi; mentre sul lago di Como, al ristorante l’Aria del Mandarin, officia Vincenzo Guarino, l’uomo delle stelle: ovunque si sposta, le porta con sé. “Al sud disponiamo di tanta materia prima. Abbiamo trasformato la cucina di casa in stile evoluto, grazie a esperienze anche all’estero. Questi sono i punti di forza di una cucina mediterranea contemporanea, alleggerita grazie a tecniche innovative. Anche se è un’arma a doppio taglio, perché chi vorrebbe restare magari non riesce. Personalmente amo studiare le culture dei luoghi dove mi trovo e farvi conoscere i nostri tesori: è uno stimolo continuo”.
A delinearsi sono alcune genealogie. Gli allievi di Gennaro Esposito, per esempio, come il salernitano Rocco De Santis, neostellato del Santa Elisabetta di Firenze, che commenta: “In Campania la cucina e l’ospitalità sono un affare di famiglia, tutti i giorni. Per questo sviluppiamo naturalmente una predisposizione verso queste professioni. Sono persuaso che il cliente scelga il ristorante anche in base all’origine del cuoco: la cucina campana è un passaporto internazionale”.
Ma ci sono anche gli allievi di Nino Di Costanzo, come Emanuele Petrosino, alla guida del ristorante I Portici di Bologna, premiato l’anno scorso dalla Michelin quale miglior giovane chef italiano.
Mentre il predecessore Agostino Iacobucci ha fondato l’omonimo ristorante a Villa Zarri, prontamente benedetto dalla Michelin. In una città dove le stelle si cercano col lanternino, una storia tutta campana, che dà da pensare. Riccardo Bacchi Reggiani, direttore dei Portici, dice la sua: “Sono dei creativi ed è l’essenza dell’italianità, tanto da essere richiesti in tutto il mondo. Elementi come la pasta e il pomodoro, poi, manifestano un evidente parallelismo con l’Emilia”.
A Bologna c’è anche il il napoletano Giuseppe Tarantino, chef dei Corbezzoli e prima ancora dell’hotel Carlton, che non ne fa una questione di bravura: “Tuttavia noi del sud abbiamo il vantaggio di una tradizione più radicata, che ci permette di poter contaminare le nostre origini con altre culture. Il clima poi favorisce la produzione di materie uniche, in grado di regalare freschezza e leggerezza al piatto”. Né va diversamente a Milano, dove hanno portato un po’ di sud Andrea Aprea di Vun e i fratelli Lebano del Gallia, Aldo Ritrovato dell’IT e Marco Ambrosino di 28 Posti.
Non sono lontani da Ilario Vinciguerra, attivo a Gallarate.
Ma non c’è solo la Campania, invero. Dalla Puglia arrivano Fabio Pisani di Aimo e Nadia, Felix Lo Basso, Salvatore Amato e i fratelli Capitaneo del Mudec.
Soprattutto Antonio Guida, bistellato al Seta del Mandarin di Milano. “Tutto dipende dal percorso e dalla persona, non c’è una lettura univoca per il fenomeno. Conta studiare e girare tantissimo, in Italia e all’estero. Ma fin da piccolo ho avuto la fortuna di una famiglia sensibile dove si mangiava bene, c’erano due forni a legna e ogni domenica era festa. Come il figlio di un avvocato, che cresce a pane e diritto”.
E in Piemonte, dietro l’apripista campano Cannavacciuolo, spunta Pasquale Laera: “Quando ti trasferisci in nuove regioni e ci lavori, trovi prodotti e usanze che non conoscevi. E io ho una fame insaziabile di scoprire e preservare, stimolando la curiosità degli ospiti. Al nord per esempio il carosello è sconosciuto, come il topinambur al sud; l’ultima forchettata di tajarin al sugo deve lasciare il piatto pulito, mentre al sud la scarpetta è d’obbligo. La sfida è padroneggiare entrambe le cucine, la cottura di una pasta secca come quella di un risotto”.
In quota Lucania, infine, c’è Vito Mollica, in forze al Four Seasons di Firenze “Oltre a mostrare rispetto per le materie prime, la stagionalità e i sapori, promuoviamo altre virtù, diverse dal gusto, ma egualmente importanti per la ristorazione come l’ospitalità, l’accoglienza, la gioia della condivisione”.
Luciano Pignataro, influente critico del sud Italia, tira le fila del discorso: “Se facessimo il conto delle stelle Michelin in base al luogo di nascita, la Campania risulterebbe di gran lunga la regione più stellata. Per esempio in Versilia le strutture premiate dalla Rossa vedono praticamente solo chef campani, per non parlare della Lombardia. Credo che questo fenomeno, che riguarda però un po’ tutto il Sud, abbia tre motivazioni. La prima è la propensione naturale, per necessità, dei meridionali a muoversi e a trasferirsi verso il Nord d’Italia o d’ Europa, dopo la sconfitta del 1860 e soprattutto dopo l’introduzione del protezionismo nel 1887, che mise in ginocchio l’economia. Sostanzialmente ancora oggi, se non hai un’attività di famiglia, è difficile restare. La seconda è che, per lo stesso motivo, è difficile tornare dopo che sei stato in una struttura importante, perché i grandi alberghi disposti a investire nel comparto gastronomico sotto Roma sono ancora pochissimi, se confrontati alla mole di ospiti e alle potenzialità di migliaia di chilometri di costa dalla travolgente bellezza. Non a caso le stelle al Sud sono concentrate nella Penisola Sorrentina, che fa di Napoli la provincia più stellata d’Italia, anche se in città solo due alberghi lo sono. Gli imprenditori non ci credono fino in fondo. Dunque per i giovani talenti resta il Centro-Nord il territorio dove trovare opportunità, a partire da Roma. Infine credo che giochi ancora la memoria della cucina di casa, visto che al Sud il tessuto tradizionale ha resistito almeno fino a una ventina di anni fa. Il cibo non solo come tecnica ed esibizione, ma come nutrimento che deve appagare e rendere felici”.
Reporter Gourmet, di Alessandra Meldolesi
Fonte : PositanoNews.it