Venerdì 4 ottobre, ore 17.00 museo Correale, lettura del XIV canto della Liberata con commento della dott.ssa…
Intende in sogno il Capitan Francese |
CANTO DECIMOQUARTO.
Usciva omai dal molle e fresco grembo
Della gran madre sua la notte oscura;
Aure lievi portando, e largo nembo
4Di sua rugiada preziosa e pura:
E scuotendo del vel l’umido lembo
Ne spargeva i fioretti e la verdura:
E i venticelli, dibattendo l’ali,
8Lusingavano il sonno de’ mortali.
II.
Ed essi ogni pensier, che ’l dì conduce,
Tuffato aveano in dolce oblio profondo.
Ma vigilando nell’eterna luce
12Sedeva al suo governo il Re del mondo:
E rivolgea dal Cielo al Franco Duce
Lo sguardo favorevole e giocondo.
Quinci a lui n’inviava un sogno cheto,
16Perchè gli rivelasse alto decreto.
III.
Non lunge all’auree porte ond’esce il Sole,
È cristallina porta in Oriente
Che, per costume, innanzi aprir si suole
20Che si dischiuda l’uscio al dì nascente.
Da questa escono i sogni, i quai Dio vuole
Mandar per grazia a pura e casta mente.
Da questa or quel ch’al pio Buglion discende,
24L’ali dorate inverso lui distende.
IV.
Nulla mai vision nel sonno offerse
Altrui sì vaghe immagini o sì belle,
Come ora questa a lui, la qual gli aperse
28I secreti del Cielo e delle stelle.
Onde, siccome entro uno speglio, ei scerse
Ciò che là suso è veramente in elle.
Pareagli esser traslato in un sereno
32Candido, e d’auree fiamme adorno e pieno.
V.
E mentre ammira in quell’eccelso loco
L’ampiezza, i moti, i lumi, e l’armonia:
Ecco, cinto di rai cinto di foco,
36Un cavaliero incontra a lui venia.
E in suono, a lato a cui sarebbe roco
Qual più dolce è qua giù, parlar l’udia:
Goffredo, non m’accogli? e non ragione
40Al fido amico? or non conosci Ugone?
VI.
Ed ei gli rispondea: quel nuovo aspetto
Che par d’un Sol mirabilmente adorno,
Dall’antica notizia il mio intelletto
44Sviato ha sì, che tardi a lui ritorno.
Gli stendea poi con dolce amico affetto
Tre fiate le braccia al collo intorno:
E tre fiate invan cinta l’imago
48Fuggia, qual leve sogno od aer vago.
VII.
Sorridea quegli: e, non già come credi,
Dicea, son cinto di terrena veste:
Semplice forma, e nudo spirto vedi
52Quì, cittadin della Città celeste.
Questo è tempio di Dio: quì son le sedi
De’ suoi guerrieri, e tu avrai loco in queste.
Quando ciò fia? rispose; il mortal laccio
56Sciolgasi omai, s’al restar quì m’è impaccio.
VIII.
Ben, replicogli Ugon, tosto raccolto
Nella gloria sarai de’ trionfanti.
Pur, militando, converrà che molto
60Sangue e sudor là giù tu versi innanti.
Da te prima ai Pagani esser ritolto
Deve l’imperio de’ paesi santi:
E stabilirsi in lor Cristiana reggia,
64In cui regnare il tuo fratel poi deggia.
IX.
Ma perchè più lo tuo desir s’avvive
Nell’amor di qua su, più fiso or mira
Questi lucidi alberghi e queste vive
68Fiamme, che mente eterna informa e gira:
E in angeliche tempre odi le dive
Sirene, e ’l suon di lor celeste lira.
China (poi disse, e gli additò la terra)
72Gli occhj a ciò che quel globo ultimo serra.
X.
Quanto è vil la cagion ch’alla virtude
Umana è colà giù premio e contrasto!
In che picciolo cerchio, e fra che nude
76Solitudini è stretto il vostro fasto!
Lei, come isola, il mare intorno chiude;
E lui, ch’or Ocean chiamate or vasto,
Nulla eguale a tai nomi ha in sè di magno;
80Ma è bassa palude, e breve stagno.
XI.
Così l’un disse; e l’altro in giuso i lumi
Volse, quasi sdegnando, e ne sorrise;
Chè vide un punto sol, mar, terre, e fiumi,
84Che quì pajon distinti in tante guise:
Ed ammirò che pur all’ombre, ai fumi,
La nostra folle umanità s’affise,
Servo imperio cercando, e muta fama:
88Nè miri il Ciel che a se n’invita e chiama.
XII.
Onde rispose: poiche Dio non piace
Del mio carcer terreno anco disciorme;
Prego che del cammin ch’è men fallace
92Fra gli errori del mondo or tu m’informe.
È, replicogli Ugon, la via verace
Questa che tieni: ondi non torcer l’orme.
Sol che richiami dal lontano esiglio
96Il figliuol di Bertoldo, io ti consiglio.
XIII.
Perchè se l’alta provvidenza elesse
Te dell’impresa sommo Capitano;
Destinò insieme ch’egli esser dovesse
100De’ tuoi consiglj esecutor soprano.
A te le prime parti, a lui concesse
Son le seconde: tu sei capo, ei mano
Di questo campo: e sostener sua vece
104Altrui non puote, e farlo a te non lece.
XIV.
A lui sol di troncar non fia disdetto
Il bosco che ha gl’incanti in sua difesa:
E da lui il campo tuo che, per difetto
108Di gente, inabil sembra a tanta impresa,
E par che sia di ritirarsi astretto,
Prenderà maggior forza a nova impresa.
E i rinforzati muri e d’Oriente
112Supererà l’esercito possente.
XV.
Tacque; e ’l Buglion rispose: o quanto grato
Fora a me che tornasse il cavaliero!
Voi, che vedete ogni pensier celato,
116Sapete s’amo lui, se dico il vero.
Ma dì, con quai proposte, od in qual lato
Si deve a lui mandarne il messaggiero?
Vuoi ch’io preghi, o comandi? E come questo
120Atto sarà legittimo ed onesto?
XVI.
Allor ripigliò l’altro: il Rege eterno,
Che te di tante somme grazie onora,
Vuol che da quegli, onde ti diè il governo,
124Tu sia onorato e riverito ancora.
Però non chieder tu (nè senza scherno
Forse del sommo imperio il chieder fora)
Ma richiesto concedi, ed al perdono
128Scendi degli altrui preghi al primo suono.
XVII.
Guelfo ti pregherà (Dio sì l’inspira)
Ch’assolva il fier garzon di quell’errore
In cui trascorse per soverchio d’ira;
132Sicchè al campo egli torni, ed al suo onore:
E bench’or lunge il giovine delira,
E vaneggia nell’ozio e nell’amore;
Non dubitar però che in pochi giorni,
136Opportuno al grand’uopo, ei non ritorni.
XVIII.
Chè ’l vostro Piero, a cui lo Ciel comparte
L’alta notizia de’ secreti sui,
Saprà drizzare i messaggieri in parte
140Ove certe novelle avran di lui.
E sarà lor dimostro il modo e l’arte
Di liberarlo, e di condurlo a vui.
Così alfin tutti i tuoi compagni erranti
144Ridurrà il Ciel sotto i tuoi segni santi.
XIX.
Or chiuderò il mio dir con una breve
Conclusion che so ch’a te fia cara.
Sarà il tuo sangue al suo commisto: e deve
148Progenie uscirne gloriosa e chiara.
Quì tacque, e sparve come fumo leve
Al vento, o nebbia al Sole arida e rara:
E sgombrò il sonno, e gli lasciò nel petto
152Di gioja e di stupor confuso affetto.
XX.
Apre allora le luci il pio Buglione,
E nato vede e già cresciuto il giorno:
Onde lascia i riposi, e sovrappone
156L’arme alle membra faticose intorno.
E poco stante a lui nel padiglione
Veniano i duci al solito soggiorno,
Ove a consiglio siedono, e per uso
160Ciò ch’altrove si fa, quivi è concluso.
XXI.
Quivi il buon Guelfo, che il novel pensiero
Infuso avea nell’inspirata mente,
Incominciando a ragionar primiero,
164Disse a Goffredo: o principe clemente,
Perdono a chieder ne vegn’io, che in vero
È perdon di peccato anco recente:
Onde potrà parer, per avventura,
168Frettolosa dimanda ed immatura.
XXII.
Ma pensando che chiesto al pio Goffredo
Per lo forte Rinaldo è tal perdono:
E riguardando a me che in grazia il chiedo,
172Che vile affatto intercessor non sono;
Agevolmente d’impetrar mi credo
Questo ch’a tutti fia giovevol dono.
Deh consenti ch’ei rieda, e che, in ammenda
176Del fallo, in pro comune il sangue spenda.
XXIII.
E chi sarà, s’egli non è, quel forte
Ch’osi troncar le spaventose piante?
Chi girà incontra ai rischj della morte
180Con più intrepido petto e più costante?
Scuoter le mura, ed atterrar le porte
Vedrailo, e salir solo a tutti innante.
Rendi al tuo campo omai rendi, per Dio,
184Lui ch’è sua alta speme e suo desio.
XXIV.
Rendi il nipote a me sì valoroso,
E pronto esecutor rendi a te stesso:
Nè soffrir ch’egli torpa in vil riposo;
188Ma rendi insieme la sua gloria ad esso.
Segua il vessillo tuo vittorioso:
Sia testimonio a sua virtù concesso:
Faccia opre di se degne in chiara luce,
192E rimirando te maestro e duce.
XXV.
Così pregava; e ciascun altro i preghi,
Con favorevol fremito, seguia.
Onde Goffredo allor, quasi egli pieghi
196La mente a cosa non pensata in pria,
Come esser può, dicea, che grazia i’ neghi
Che da voi si dimanda e si desia?
Ceda il rigore: e sia ragione e legge
200Ciò che il consenso universale elegge.
XXVI.
Torni Rinaldo, e da quì innanzi affrene
Più moderato l’impeto dell’ire:
E risponda con l’opre all’alta spene
204Di lui concetta, ed al comun desire.
Ma il richiamarlo, o Guelfo, a te conviene:
Frettoloso egli fia, credo, al venire.
Tu scegli il messo, e tu l’indrizza dove
208Pensi che ’l fero giovine si trove.
XXVII.
Tacque; e disse sorgendo il guerrier Dano:
Esser io chieggio il messaggier che vada;
Nè ricuso cammin dubbio o lontano,
212Per far il don dell’onorata spada.
Questi è di cor fortissimo e di mano,
Onde al buon Guelfo assai l’offerta aggrada.
Vuol ch’ei sia l’un de’ messi, e che sia l’altro
216Ubaldo, uom cauto, ed avveduto, e scaltro.
XXVIII.
Veduti Ubaldo, in giovinezza, e cerchi
Varj costumi avea, varj paesi,
Peregrinando dai più freddi cerchj
220Del nostro mondo agli Etiópi accesi:
E com’uom che virtute e senno merchi,
Le favelle, le usanze, e i riti appresi.
Poscia, in matura età, da Guelfo accolto
224Fu tra’ compagni, e caro a lui fu molto.
XXIX.
A tai messaggj l’onorata cura
Di richiamar l’alto campion si diede:
E gl’indrizzava Guelfo a quelle mura
228Tra cui Boemondo ha la sua regia sede;
Chè per pubblica fama, e per sicura
Opinion ch’egli vi sia si crede.
Ma ’l buon Romito che lor mal diretti
232Conosce, entra fra loro, e tronca i detti;
XXX.
E dice: o cavalier, seguendo il grido
Della fallace opinion volgare,
Duce seguite temerario e infido
236Che vi fa gire indarno, e traviare.
Or d’Ascalona nel propinquo lido
Itene, dove un fiume entra nel mare.
Quivi fia che v’appaja uom nostro amico;
240Credete a lui: ciò ch’ei diravvi, io ’l dico.
XXXI.
Ei molto per se vede; e molto intese
Del preveduto vostro alto viaggio,
Già gran tempo ha, da me: so che cortese
244Altrettanto vi fia quanto egli è saggio.
Così lor disse; e più da lui non chiese
Carlo, o l’altro che seco iva messaggio;
Ma furo ubbidienti alle parole
248Che spirito divin dettar gli suole.
XXXII.
Preser commiato, e sì il desio gli sprona
Che, senza indugio alcun posti in cammino,
Drizzaro il lor corso ad Ascalona,
252Dove ai lidi si frange il mar vicino.
E non udian ancor come risuona
Il roco ed alto fremito marino,
Quando giunsero a un fiume, il qual di nuova
256Acqua accresciuto è per novella piova;
XXXIII.
Sicchè non può capir dentro al suo letto,
E sen va più che stral corrente e presto.
Mentre essi stan sospesi, a lor, d’aspetto
260Venerabile, appare un vecchio onesto
Coronato di faggio, in lungo e schietto
Vestir che di lin candido è contesto:
Scuote questi una verga, e il fiume calca
264Co’ piedi asciutti, e contra il corso il valca.
XXXIV.
Siccome soglion là vicino al polo,
S’avvien che ’l verno i fiumi agghiacci e indure,
Correr sul Ren le villanelle a stuolo
268Con lunghi striscj, e sdrucciolar sicure,
Tal ei ne vien sovra l’instabil suolo
Di queste acque non gelide e non dure:
E tosto colà giunse, onde in lui fisse
272Tenean le luci i due guerrieri, e disse:
XXXV.
Amici, dura e faticosa inchiesta
Seguite: e d’uopo è ben ch’altri vi guidi;
Chè il cercato guerrier lunge è da questa
276Terra in paesi inospiti ed infidi.
Quanto, o quanto dell’opra anco vi resta!
Quanti mar correrete, e quanti lidi!
E convien che si stenda il cercar vostro
280Oltre i confini ancor del mondo nostro.
XXXVI.
Ma non vi spiaccia entrar nelle nascose
Spelonche ov’ho la mia secreta sede:
Chè ivi udrete da me non lievi cose,
284E ciò ch’a voi saper più si richiede.
Disse; e che lor dia loco all’acqua impose;
Ed ella tosto si ritira e cede:
E quinci e quindi, di montagna in guisa,
288Curvata pende, e in mezzo appar divisa.
XXXVII.
Ei, presigli per man, nelle più interne
Profondità sotto quel rio lor mena.
Debile e incerta luce ivi si scerne,
292Qual tra’ boschi di Cintia ancor non piena:
Ma pur gravide d’acque ampie caverne
Veggiono, onde tra noi sorge ogni vena,
La qual zampilli in fonte, o in fiume vago
296Discorra, o stagni, o si dilati in lago.
XXXVIII.
E veder ponno onde il Po nasca, ed onde
Idaspe, Gange, Eufrate, Istro derivi:
Onde esca pria la Tana: e non asconde
300Gli occulti suoi principj il Nilo quivi.
Trovano un rio più sotto, il qual diffonde
Vivaci zolfi, e vaghi argenti e vivi.
Questi il Sol poi raffina, e il licor molle
304Stringe in candide masse, e in auree zolle.
XXXIX.
E miran d’ogni intorno al ricco fiume
Di care pietre il margine dipinto;
Onde, come a più fiaccole s’allume,
308Splende quel loco, e ’l fosco orror n’è vinto.
Quivi scintilla con ceruleo lume
Il celeste zaffiro, ed il giacinto:
Vi fiammeggia il carbonchio, e luce il saldo
312Diamante, e lieto ride il bel smeraldo.
XL.
Stupidi i Guerrier vanno, e nelle nove
Cose sì tutto il lor pensier s’impiega,
Che non fanno alcun motto; alfin pur move
316La voce Ubaldo, e la sua scorta prega:
Deh, Padre, dinne ove noi siamo: ed ove
Ci guidi: e tua condizion ne spiega;
Ch’io non so se ’l ver miri, o sogno od ombra;
320Così alto stupore il cor m’ingombra.
XLI.
Risponde: sete voi nel grembo immenso
Della terra che tutto in se produce.
Nè già potreste penetrar nel denso
324Delle viscere sue senza me duce.
Vi scorgo al mio palagio, il qual accenso
Tosto vedrete di mirabil luce.
Nacqui io Pagan; ma poi nelle sante acque
328Rigenerarmi a Dio per grazia piacque.
XLII.
Nè in virtù fatte son d’Angioli stigj
L’opere mie maravigliose e conte.
Tolga Dio ch’usi note o suffumigj,
332Per isforzar Cocíto, o Flegetonte.
Ma spiando men vo da’ lor vestigj
Qual’ in sè virtù celi o l’erba, o ’l fonte:
E gli altri arcani di Natura ignoti
336Contemplo, e delle stelle i varj moti.
XLIII.
Perocchè non ognor lunge dal Cielo
Tra sotterranei chiostri è la mia stanza;
Ma sul Libano spesso, e sul Carmelo
340In aerea magion fo dimoranza.
Ivi spiegansi a me, senza alcun velo,
Venere e Marte in ogni lor sembianza:
E veggio come ogni altra o presto o tardi
344Roti: o benigna o minaccevol guardi.
XLIV.
E sotto i piè mi veggio or folte or rade
Le nubi, or negre ed or pinte da Iri:
E generar le piogge e le rugiade
348Risguardo: e come il vento obliquo spiri:
Come il folgor s’infiammi: e per quai strade
Tortuose, in giù spinto, ei si raggiri:
Scorgo comete, e fochi altri sì presso,
352Ch’io soleva invaghir già di me stesso.
XLV.
Di me medesmo fui pago cotanto,
Ch’io stimai già che il mio saper misura
Certa fosse e infallibile di quanto
356Può far l’alto fattor della Natura.
Ma quando il vostro Piero al fiume santo
M’asperse il crine, e lavò l’alma impura,
Drizzò più su il mio guardo, e ’l fece accorto;
360Ch’ei per se stesso è tenebroso e corto.
XLVI.
Conobbi allor ch’augel notturno al Sole
È nostra mente ai rai del primo vero:
E di me stesso risi e delle fole
364Che già cotanto insuperbir mi fero.
Ma pur seguito ancor, come egli vuole,
Le solite arti, e l’uso mio primiero.
Ben sono in parte altr’uom da quel ch’io fui:
368Ch’or da lui pendo, e mi rivolgo a lui;
XLVII.
E in lui m’acqueto; egli comanda e insegna,
Mastro insieme e signor sommo e sovrano:
Nè già per nostro mezzo oprar disdegna
372Cose degne talor della sua mano.
Or sarà cura mia ch’al campo vegna
L’invitto eroe dal suo carcer lontano;
Ch’ei la m’impose, e già gran tempo aspetto
376Il venir vostro, a me per lui predetto.
XLVIII.
Così con lor parlando al loco viene
Ov’egli ha il suo soggiorno e ’l suo riposo.
Questo è in forma di speco, e in se contiene
380Camare e sale, grande e spazioso.
E ciò che nudre entro le ricche vene
Di più chiaro la terra e prezioso,
Splende ivi tutto: ed ei n’è in guisa ornato,
384Ch’ogni suo fregio è non fatto, ma nato.
XLIX.
Non mancar quì cento ministri e cento
Che accorti e pronti a servir gli osti foro.
Nè poi in mensa magnifica d’argento
388Mancar gran vasi, e di cristallo, e d’oro.
Ma quando sazio il natural talento
Fu de’ cibi, e la sete estinta in loro:
Tempo è ben, disse ai cavalieri il mago,
392Che il maggior desir vostro omai sia pago.
L.
Quivi ricominciò: l’opre e le frodi
Note in parte a voi son dell’empia Armida:
Come ella al campo venne, e con quai modi
396Molti guerrier ne trasse, e lor fu guida.
Sapete ancor che di tenaci nodi
Gli avvinse poscia, albergatrice infida:
E ch’indi a Gaza gl’inviò con molti
400Custodi, e che tra via furon disciolti.
LI.
Or vi narrerò quel ch’appresso occorse;
Vera istoria, da voi non anco intesa.
Poichè la maga rea vide ritorse
404La preda sua, già con tant’arte presa,
Ambe le mani per dolor si morse;
E fra se disse, di disdegno accesa:
Ah vero unqua non fia, che d’aver tanti
408Miei prigion liberati egli si vanti:
LII.
Se gli altri sciolse, ei serva, ed ei sostegna
Le pene altrui serbate, e ’l lungo affanno.
Nè questo anco mi basta; i’ vuò che vegna
412Sugli altri tutti universale il danno.
Così tra se dicendo, ordir disegna
Questo, ch’or udirete, iniquo inganno.
Viensene al loco ove Rinaldo vinse
416In pugna i suoi guerrieri, e parte estinse.
LIII.
Quivi egli avendo l’arme sue deposto,
Indosso quelle d’un Pagan si pose:
Forse perchè bramava irsene ascosto
420Sotto insegne men note e men famose.
Prese l’armi la maga, e in esse tosto
Un tronco busto avvolse, e poi l’espose:
L’espose in riva a un fiume, ove doveva
424Stuol de’ Franchi arrivare; e ’l prevedeva.
LIV.
E questo antiveder potea ben ella,
Che mandar mille spie solea d’intorno;
Onde spesso del campo avea novella,
428E s’altri indi partiva, o fea ritorno;
Oltrechè con gli spirti anco favella
Sovente, e fa con lor lungo soggiorno.
Collocò dunque il corpo morto in parte
432Molto opportuna a sua ingannevol’arte.
LV.
Non lunge un sagacissimo valletto
Pose, di panni pastorai vestito:
E impose lui ciò ch’esser fatto o detto
436Fintamente doveva; e fu eseguito.
Questi parlò co’ vostri, e di sospetto
Sparse quel seme in lor, ch’indi nutrito
Fruttò risse e discordie, e quasi alfine
440Sediziose guerre e cittadine.
LVI.
Che fu, com’ella disegnò, creduto
Per opra del Buglion Rinaldo ucciso:
Benchè alfine il sospetto, a torto avuto,
444Del ver si dileguasse al primo avviso.
Cotal d’Armida l’artificio astuto
Primieramente fu qual io diviso.
Or udirete ancor come seguisse
448Poscia Rinaldo, e quel ch’indi avvenisse.
LVII.
Qual cauta cacciatrice Armida aspetta
Rinaldo al varco: ei sull’Oronte giunge,
Ove un rio si dirama, e, un’isoletta
452Formando, tosto a lui si ricongiunge:
E in su la riva una colonna eretta
Vede, e un picciol battello indi non lunge.
Fissa egli tosto gli occhj al bel lavoro
456Del bianco marmo, e legge in lettre d’oro:
LVIII.
O chiunque tu sia, che voglia o caso
Peregrinando adduce a queste sponde;
Maraviglia maggior l’orto o l’occaso
460Non ha di ciò che l’isoletta asconde.
Passa, se vuoi vederla: è persuaso
Tosto l’incauto a girne oltra quell’onde.
E perchè mal capace era la barca,
464Gli scudieri abbandona, ed ei sol varca.
LIX.
Come è là giunto, cupido e vagante
Volge intorno lo sguardo, e nulla vede,
Fuorch’antri, ed acque, e fiori, ed erbe, e piante;
468Onde quasi schernito esser si crede.
Ma pur quel loco è così lieto, e in tante
Guise l’alletta, ch’ei si ferma e siede
E disarma la fronte, e la ristaura
472Al soave spirar di placid’aura.
LX.
Il fiume gorgogliar frattanto udío
Con nuovo suono, e là con gli occhj corse;
E muover vide un’onda in mezzo al rio
476Che in se stessa si volse, e si ritorse:
E quinci alquanto d’un crin biondo uscío,
E quinci di donzella un volto sorse,
E quinci il petto, e le mammelle, e de la
480Sua forma infin dove vergogna cela.
LXI.
Così dal palco di notturna scena
O Ninfa o Dea tarda sorgendo appare.
Questa, benchè non sia vera Sirena
484Ma sia magica larva, una ben pare
Di quelle che già presso alla Tirrena
Piaggia abitar l’insidioso mare:
Nè men ch’in viso bella, in suono è dolce:
488E così canta, e ’l Cielo e l’aure molce.
LXII.
O giovinetti, mentre Aprile e Maggio
V’ammantan di fiorite e verdi spoglie;
Di gloria e di virtù fallace raggio
492La tenerella mente ah non v’invoglie.
Solo chi segue ciò che piace è saggio,
E in sua stagion degli anni il frutto coglie;
Questo grida natura: or dunque voi
496Indurerete l’alma ai detti suoi?
LXIII.
Folli, perchè gettate il caro dono,
Che breve è sì, di vostra età novella?
Nomi senza soggetto, idoli sono
500Ciò che pregio e valore il mondo appella.
La fama che invaghisce a un dolce suono
Voi superbi mortali, e par sì bella,
È un Eco, un sogno, anzi del sogno un’ombra
504Ch’ad ogni vento si dilegua e sgombra.
LXIV.
Goda il corpo sicuro, e in lieti oggetti
L’alma tranquilla appaghi i sensi frali:
Oblii le noje andate, e non affretti
508Le sue miserie in aspettando i mali.
Nulla curi, se ’l Ciel tuoni o saetti:
Minacci egli a sua voglia, e infiammi strali.
Questo è saper, questa è felice vita:
512Sì l’insegna natura, e sì l’addita.
LXV.
Sì canta l’empia; e ’l giovinetto al sonno
Con note invoglia sì soavi e scorte.
Quel serpe a poco a poco, e si fa donno
516Sovra i sensi di lui possente e forte.
Nè i tuoni omai destar, non ch’altri, il ponno
Da quella queta immagine di morte.
Esce d’aguato allor la falsa maga,
520E gli va sopra, di vendetta vaga.
LXVI.
Ma quando in lui fissò lo sguardo, e vide
Come placido in vista egli respira:
E ne’ begli occhj un dolce atto che ride,
524Benchè sian chiusi, (or che fia s’ei gli gira?)
Pria s’arresta sospesa: e gli s’asside
Poscia vicina, e placar sente ogn’ira
Mentre il risguarda: e in su la vaga fronte
528Pende omai sì, che par Narciso al fonte.
LXVII.
E quei ch’ivi sorgean vivi sudori
Accoglie lievemente in un suo velo:
E, con un dolce ventilar, gli ardori
532Gli va temprando dell’estivo Cielo.
Così (chi ’l crederia?) sopíti ardori
D’occhj nascosi distemprar quel gelo
Che s’indurava al cor più che diamante,
536E di nemica ella divenne amante.
LXVIII.
Di ligustri, di giglj, e delle rose
Le quai fiorian per quelle piaggie amene,
Con nov’arte congiunte, indi compose
540Lente ma tenacissime catene.
Queste al collo, alle braccia, ai piè gli pose:
Così l’avvinse, e così preso il tiene:
Quinci, mentre egli dorme, il fa riporre
544Sovra un suo carro, e ratta il Ciel trascorre.
LXIX.
Nè già ritorna di Damasco al regno,
Nè dove ha il suo castello in mezzo all’onde;
Ma, ingelosita di sì caro pegno
548E vergognosa del suo amor, s’asconde
Nell’Oceano immenso, ove alcun legno
Rado o non mai va dalle nostre sponde,
Fuor tutti i nostri lidi: e quivi eletta
552Per solinga sua stanza è un’isoletta.
LXX.
Un’isoletta la qual nome prende,
Con le vicine sue, dalla Fortuna.
Quinci ella in cima a una montagna ascende
556Disabitata, e d’ombre oscura e bruna.
E per incanto a lei nevose rende
Le spalle, e i fianchi: e senza neve alcuna
Gli lascia il capo verdeggiante e vago:
560E vi fonda un palagio appresso un lago;
LXXI.
Ove, in perpetuo April, molle amorosa
Vita seco ne mena il suo diletto.
Or da così lontana e così ascosa
564Prigion trar voi dovete il giovinetto:
E vincer della timida e gelosa
Le guardie, ond’è difeso il monte e ’l tetto.
E già non mancherà chi là vi scorga,
568E chi per l’alta impresa arme vi porga.
LXXII.
Troverete, del fiume appena sorti,
Donna giovin di viso, antica d’anni:
Ch’ai lunghi crini in su la fronte attorti
572Fia nota, ed al color vario de’ panni.
Questa per l’alto mar fia che vi porti
Più ratta che non spiega aquila i vanni,
Più che non vola il folgore: nè guida
576La troverete al ritornar men fida.
LXXIII.
A piè del monte, ove la maga alberga,
Sibilando strisciar novi Pitoni,
E cinghiali arricciar l’aspre lor terga,
580Ed aprir la gran bocca orsi e leoni
Vedrete; ma scuotendo una mia verga,
Temeranno appressarsi ove ella suoni.
Poi via maggior (se dritto il ver s’estima)
584Troverete il periglio in su la cima.
LXXIV.
Un fonte sorge in lei che vaghe e monde
Ha l’acque sì, che i riguardanti asseta;
Ma dentro ai freddi suoi cristalli asconde
588Di tosco estran malvagità secreta;
Chè un picciol sorso di sue lucide onde
Inebria l’alma tosto, e la fa lieta:
Indi a rider uom muove, e tanto il riso
592S’avanza alfin, ch’ei ne rimane ucciso.
LXXV.
Lunge la bocca disdegnosa e schiva
Torcete voi dall’acque empie omicide
Nè le vivande poste in verde riva
596V’allettin poi, nè le donzelle infide:
Chè voce avran piacevole e lasciva,
E dolce aspetto che lusinga e ride.
Ma voi, gli sguardi e le parole accorte
600Sprezzando, entrate pur nelle alte porte.
LXXVI.
Dentro è di muri inestricabil cinto,
Che mille torce in se confusi giri:
Ma in breve foglio io ve ’l darò distinto
604Sì che nessun error fia che v’aggiri.
Siede in mezzo un giardin del laberinto,
Che par che da ogni fronde amore spiri.
Quivi in grembo alla verde erba novella
608Giacerà il cavaliero e la donzella.
LXXVII.
Ma come essa, lasciando il caro amante,
In altra parte il piede avrà rivolto;
Vuò ch’a lui vi scopriate, e d’adamante
612Un scudo, ch’io darò, gli alziate al volto;
Sicch’egli vi si specchi, e ’l suo sembiante
Veggia, e l’abito molle onde fu involto:
Chè a tal vista potrà vergogna e sdegno
616Scacciar dal petto suo l’amor indegno.
LXXVIII.
Altro che dirvi omai nulla m’avanza,
Se non ch’assai sicuri ir ne potrete,
E penetrar dell’intricata stanza
620Nelle più interne parti e più secrete:
Perchè non fia che magica possanza
A voi ritardi il corso, o ’l passo viete:
Nè potrà pur (cotal virtù vi guida!)
624Il giunger vostro antiveder Armida.
LXXIX.
Nè men sicura dagli alberghi suoi
L’uscita vi sarà poscia e ’l ritorno.
Ma giunge omai l’ora del sonno, e voi
628Sorger diman dovete a par col giorno.
Così lor disse; e gli menò dipoi
Ove essi avean la notte a far soggiorno.
Ivi lasciando lor lieti e pensosi,
632Si ritrasse il buon vecchio a’ suoi riposi.
Fonte : PositanoNews.it