Nei prossimi giorni arriverà una famiglia Siriana per essere ospitata temporaneamente nei locali della chiesa…
Nei prossimi giorni arriverà una famiglia Siriana per essere ospitata temporaneamente nei locali della chiesa di Santa Maria del Lauro. E’ la terza famiglia che arriva a Meta, fruendo dei servizi di assistenza, in regola con i documenti e avallata dai Servizi Umanitari internazionali Sant’Egidio. Il Parroco Don Francesco Guadagnuolo ha concesso cortese intervista all’inviato di Positanonews in occasione anche di un importante incontro ACCOGLIENZA E INTEGRAZIONE che avverrà il 14 dicembre 2019 presso il Centro Pastorale adiacente la Basilica. Saranno presenti Daniela Pompei, responsabile internazionale servizi immigrazione di Sant’Egidio, Mario Marazziti, giornalista e scrittore, coordinatore Comunità Sant’Egidio,Don Mimmo Leonetti Direttore Caritas Diocesana Sorrento Castellammare di Stabia, testimonianze delle Famiglie Profughe Siriane Accolte, a moderare il dibattito, il Parroco Don Francesco. Nell’occasione sarà anche presentato il Libro PORTE APERTE di Marazziti.
L’accoglienza è una operazione di coraggio e responsabilità, che si supera con il non abbiate paura di Giovanni Paolo II, questo lascia intendere il Parroco Don Francesco, e senza trascurare la parrocchia, il territorio locale, il Centro di Ascolto, instaurano nella Basilica, ascolta e segue, non solo spiritualmente, circa 700 persone.
Porte aperte di Mario Marazziti
L’esperienza dei Corridoi Umanitari, un modello di integrazione che dà nuova vita ai migranti e alle nostre comunità.
Porte aperte: della comunità, della propria casa, della mente. Le storie raccolte in questo libro iniziano così, da persone che, vincendo la diffidenza, hanno accolto in vario modo persone in fuga dalla guerra, dalle persecuzioni, dalla morte. Attraverso di loro la rete dei Corridoi Umanitari promossi dalla Comunità di Sant’Egidio, dalla Federazione delle Chiese Evangeliche e dalla Conferenza Episcopale Italiana si è allargata ed è diventata il modello concreto e praticabile di una vera integrazione. Mario Marazziti, esperto e protagonista di politiche sociali innovative, ha attraversato l’intero Paese, da Treviso a Palermo, visitando città e piccoli centri, per raccogliere esperienze di un tipo di accoglienza diffusa che funziona e non richiede finanziamenti pubblici e che, mentre offre una nuova vita ai profughi, fa rinascere anche le comunità locali intorno a un progetto comune.
Nel suo viaggio dà voce all’Italia che non cede alla paura, non distoglie lo sguardo dalle sofferenze degli altri; a cittadini che a partire dalle ragioni della solidarietà e di un umanesimo profondo, hanno dato l’avvio a una significativa trasformazione sociale. E nella conclusione offre proposte operative per le politiche italiane ed europee. Un libro di storie autentiche che lasciano intravedere un futuro alternativo ai muri e ai porti chiusi e rappresentano l’antidoto alle narrazioni che impediscono di vedere nell’altro la somiglianza con noi stessi.
Mario Marazziti
Nato a Roma nel 1952, giornalista e scrittore, autore di diversi libri, è stato per anni editorialista per il Corriere della Sera, Avvenire, Famiglia Cristiana, Huffington Post e portavoce della Comunità di Sant’Egidio.
Presidente del Comitato per i Diritti Umani e poi della Commissione Affari Sociali della Camera dei Deputati dal 2013 al 2018, è stato promotore e primo firmatario della legge di cittadinanza per i bambini immigrati (ius soli e ius culturae) e ha portato a termine, tra l’altro, la riforma delle professioni sanitarie, la legge di sostegno ai disabili gravi «Dopo di noi», e quella sul recupero degli sprechi alimentari. È cofondatore della Coalizione Mondiale contro la Pena di Morte.
PORTE APERTE
Viaggio nell’Italia che non ha pauraSCHEI E SOLIDARIETÀ
Il Piave. Quando si passa dalla riva destra a quella sinistra
per andare da Crocetta a Valdobbiadene è molto più largo
di quello che ci si può aspettare, e poco più su si allarga ancora. In quel punto sembra quasi il Danubio. Un grande bacino d’acqua le cui rive, da una parte e dall’altra, distano più
di quelle del Tevere o dell’Arno. Poco più in là iniziano le
colline del prosecco. Arrivo al Piave da Castelfranco e Bassano. Si fa fatica oggi a immaginare che è sui lati di questa
frontiera d’acqua che si è giocata una parte importante del
nostro destino nazionale, dopo il crollo del fronte a Caporetto, nel 1917.
È una terra intrisa di sacrificio, dolore e vittime, quella
che oggi è rinata, ma con una geografia cambiata anche nei
nomi dei paesi: Moriago della Battaglia, Sernaglia della Battaglia, Nervesa della Battaglia. Da Moriago è ripartita l’offensiva finale che si è conclusa il 4 novembre del 1918 con
le proverbiali parole di vittoria del Maresciallo Diaz. A Sernaglia e a Nervesa ci sono due grandi sacrari militari. Lì accanto c’è Crocetta del Montello, e non lontano l’altro cimitero e sacrario di Vidor, sul lato opposto del fiume. Sono nomi
che oggi ai più evocano poco. Crocetta aveva 1.500 case: di
queste, alla fine della Grande Guerra, 300 erano completamente distrutte, 1.150 danneggiate e solo 50 stavano ancora
in piedi. Il sentiero delle trincee tra Onigo e Cornuda passa
di lì. L’osservatorio Marocco, sul piccolo monte Sulder, sta di
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fronte al Santuario della Madonna della Rocca di Cornuda,
bombardato anche quello. Dai punti più alti si potevano vedere il monte Grappa e il Montello. Tutto intorno il terreno
è pieno di avvallamenti, e si intuiscono le trincee scavate a
difesa che sono state ricoperte dagli uomini e dal tempo.
Dall’osservatorio ci si muoveva a valle con la teleferica, fino
al Comando generale di Villa Barbaro, da dove il generale
Squillaci guidava le operazioni. A otto chilometri c’è il Sacrario di Pederobba, un grande muro di pietra fatto a gradoni
che conserva i resti di 1.000 soldati italiani e francesi di cui
si sa il nome, e di alcuni senza nome. Racconta che la guerra
brutale che lì si è combattuta 102 anni fa è stata anche una
grande storia di solidarietà. È il sacrario italo-francese, eretto
nel 1937, poco prima della nuova follia bellica mondiale. E
testimonia un frammento dimenticato di storia: l’aiuto dato
da 130.000 soldati francesi agli italiani, con perdite umane
altissime, per reggere l’urto sul fronte che avrebbe potuto
cambiare le sorti della guerra.
Oggi quella pianura ordinata è punteggiata, lungo la strada,
da capannoni. Fabbricati che vogliono esprimere anche con
il design dell’architettura industriale contemporanea la capacità di stare sul mercato con l’innovazione. Nomi noti e
meno noti, ma tutti ben conosciuti all’estero, come il gruppo
Stiga, macchinari per il giardinaggio in 70 paesi del mondo.
Le valli ricamate di viti da Conegliano a Valdobbiadene fanno
da contrappunto e salgono dolcemente, in questa terra tra
campagna e “città diffusa”. Treviso è la “capitale” dell’area,
e Montebelluna con 30.000 abitanti di cui un migliaio di cinesi, è una minicittà a rete, che unisce sei borghi. Cittadina
una volta di emigranti e tanti figli, dove la popolazione è cresciuta con regolarità, perché è un incrocio di persone e commerci. A decidere il destino di Montebelluna e di tutta la zona
è stata la ferrovia, perché il futuro aveva deciso di passare
proprio di lì: con la Treviso-Montebelluna nel 1884, la Padova-Montebelluna due anni dopo, l’arrivo dell’elettricità e
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più avanti della tramvia elettrica, e le linee create per far attraversare il Piave a truppe e materiali. Ne ha fatta di strada
Montebelluna da quando l’unica attività non agricola erano
7 filande che davano lavoro a 140 persone. Lo sviluppo della
città è stato accompagnato dalla crescita delle Società di Mutuo Soccorso e dalla cultura contadina di un cattolicesimo
ben radicato, che si è mischiata con successo con la modernità del mondo operaio. Da questo cattolicesimo popolare e
intelligente, capace di un’immaginazione alimentata dai teatrini edificanti inventati da Don Bosco, sono uscite figure
brillanti, come quella del giornalista e storico Giancarlo Zizola, uno dei più acuti commentatori del Concilio Vaticano
II e dei pontificati del Novecento: a volere che quel giovanissimo talento si trasferisse a Roma proprio per raccontare il
Concilio fu monsignor Loris Capovilla, il segretario di papa
Giovanni XXIII.
Le colline del prosecco non hanno tradito questa storia di
piccola vita e piccoli centri. Il panorama, paesaggio e identità insieme, cambia colore e non intristisce nemmeno d’inverno. Non è punteggiato da casali antichi e rustici di pietra
come in Toscana o nel Bordeaux. Qui le case sono semplici,
comunicano essenzialità e lavoro. In luoghi dove le geometrie delle vigne e le case rurali raccontano un paesaggio fatto
a mano, la responsabilità dell’arte cade sulle torri medievali,
come a Credazzo, su Villa Brandolini, chiesine nascoste, San
Vigilio, e su qualche abbazia, come Santa Bona. Cornuda è a
dieci minuti da Montebelluna e a cinque dal Piave. Il tempo
corre anche a Cornuda, dove è arrivata una famiglia di siriani.
«Qui c’è stato il boom continuato dopo il boom, dagli anni
Cinquanta agli anni Ottanta» spiega don Francesco Marconato, parroco di San Martino. «Ogni 500 metri, ogni chilometro trovavi prima lo scarpone da sci, poi lo stivale da
moto, poi lo scarpone da riposo, poi lo scarpone da pattinaggio. Tutte cose tecniche. Qui in due chilometri ci sono una
di fronte all’altra le due fabbriche mondiali di scarponi da
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moto. Poi c’è il discorso del “prosecco”. Tutto questo non si
manda avanti senza immigrati. Ne sono arrivati tanti, venti,
dieci anni fa. Alla fine si sono inseriti bene, ma solo adesso.
L’integrazione piena è stata un processo lento, che poteva essere più naturale e più rapido, se aiutato. Ma alla fine è avvenuta lo stesso, perché l’integrazione ha la forza dell’acqua.»
Sì, gli immigrati. Al Bar Due, sulla provinciale, dopo aver
fatto una spremuta d’arancia, con un bell’accento veneto la
signora al banco chiede: «Le è piaciuta, diméno?». Voleva
dire “almeno”. Quando continua a parlare, si capisce che è
rumena e ha quel bar da diversi anni. Si intrattiene con una
cliente che fa la rappresentante di commercio, vende contratti
con gestori indipendenti di gas e luce. Le due signore scherzano tra loro con apprezzamenti salati sugli uomini, di cui si
sono un po’ “stufate” tutte e due. Discorsi da bar, si diceva
una volta, ma hanno smesso di essere un’esclusiva maschile.
Lungo la strada dove si erige, imponente, la parrocchia
di don Francesco, San Martino di Tours, il 1 maggio 1945 si
concludeva la battaglia di Cornuda e iniziava la Liberazione.
Da lì i fanti dell’88a
Divisione americana entravano circospetti in paese, salutati da chi c’era. Cornuda passava dalla
Repubblica di Salò, dal fascismo e dalla guerra al dopoguerra,
quando sono arrivati i carri del 752o Battaglione tanks: un
archivio Combat Film conserva le immagini prese dal fotografo Mulcahy della 196a
Compagnia fotografi e cineoperatori. Lì sono i luoghi e gli alberi delle esecuzioni sommarie
degli ultimi giorni di guerra, di repubblichini e partigiani.
Per i parenti, i nipoti dei parenti, sono memorie indelebili,
anche se invisibili agli altri, perché quella è una strada come
un’altra, si allarga e diventa piazza lungo il prolungamento
di via Giacomo Matteotti.
Nella casa accanto alla parrocchia, alla tavola della comunità, c’è anche un prete del Benin. Era il rettore del seminario nel suo paese, ma lì non aveva potuto studiare tanto. È
venuto un paio di estati in Italia per fare qualche soldo con
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le sostituzioni estive dei viceparroci e mantenersi poi in Benin. Il vescovo di Treviso e il vescovo di Tengu hanno concordato un progetto di solidarietà, e adesso questo giovane
beninois studia teologia, filosofia e pastorale in Veneto. È
molto amato dai vecchi del paese. Quando stanno male gli
porta la comunione, li va a trovare. La prima integrazione in
parrocchia la vivono così, e anche questa è una delle facce
del rapporto tra anziani veneti che hanno vissuto la guerra e
il dopoguerra, e i giovani africani. Amicizia, aiuto.
A Cornuda incontro Gianni Sardelli, Grazia Maria Rocco,
Gianpietro De Bortoli e Roberta Piva. Gianni ha una storia
scout e di volontariato con il cuamm, i medici per l’Africa,
con cui è stato in Uganda per qualche anno quasi venti anni
fa. L’accento è del Salento. È un «immigrato». Grazia Maria è un medico di base, figlia di profughi istriani da parte di
papà. Gianpietro insegna religione nelle scuole ed è stato in
consiglio comunale, all’opposizione. Roberta è un’impiegata.
Prima di diventare, insieme, il gruppo promotore dell’accoglienza dei profughi a Cornuda non erano un gruppo o una
comunità: erano brave persone, che si conoscevano, ciascuno
con un po’ di storia scout, ma ognuno per conto proprio.
Tutto comincia nella primavera del 2016. «Abbiamo visto
che al Brennero chiudevano le frontiere» racconta Gianni.
«I profughi riempivano la televisione. Qui più di qualcuno
aveva le case vuote perché i figli sono cresciuti e sono andati
via. Abbiamo cominciato a parlare tra di noi. Chi siamo? Che
vita facciamo? Possiamo non fare niente? Ci siamo guardati
intorno, abbiamo cominciato a guardare Cornuda con altri
occhi, anche i luoghi dove viviamo, le nostre case, per esempio. Abbiamo fatto un’analisi della situazione, anche politica: maggioranza Lega, con Forza Italia nella lista civica che
esprime il sindaco. Qualcosa dobbiamo comunque fare, e
questa è stata la nostra scelta. Ci siamo chiesti se collaborare
con la Caritas. Noi siamo sempre stati aperti alla collaborazione con tutti. La Caritas, già impegnata sul fronte dei mi566-7407-1_Porte aperte.indd 11 25/09/19 14:11
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nori non accompagnati, non vedeva tanto possibile una cosa
del genere in un posto così piccolo come Cornuda. Sembrava
che non ci fossero forze sufficienti da coinvolgere economicamente e nell’accoglienza. I Corridoi iniziati da Sant’Egidio
erano però un’altra cosa da quello che si faceva già. E chiedevano più coinvolgimento. Il nostro c’era, e così ci siamo
fatti avanti.»
Danno una disponibilità. «Dopo un po’ ci richiamano:
“Siete un’associazione?” ci chiedono. “No. Siamo gruppi di
famiglie. Abbiamo lanciato un appello. Ci hanno risposto
in molti. Siamo un insieme”.» Questo è stato l’inizio. «Poi
da un insieme è nata un’associazione. E abbiamo voluto che
fosse un’associazione riconosciuta, iscritta all’Albo regionale,
con un bilancio certo e trasparente sotto il profilo finanziario e della governance.»
Un Ponte Verso nasce a ottobre 2016: autofinanziata, non
confessionale. Molti sono cristiani, ma anche no. Ed è un
contagio positivo. Il Centro Servizio Volontariato con altre
associazioni garantisce per il primo anno la metà della cifra
necessaria. Arrivano così i primi 10.000 euro. Gli altri ce li
mettono i promotori. Dal secondo anno sono le famiglie di
Grazia Maria, Gianpietro e gli altri associati che si prendono
tutto l’impegno economico, direttamente e con sottoscrizioni.
Nasce anche una banca del tempo. La scelta, d’accordo con
Sant’Egidio, è quella di un accompagnamento personalizzato, per rendere meno difficili inserimento e integrazione.
Per novembre, quando è previsto l’arrivo di una prima famiglia di profughi siriani, è stato trovato un appartamento
carino e c’è, pronta, la prima rete di accoglienza.
San Martino di Tours è una chiesa grande, ma il campanile in proporzione è ancora più grande. È alto più del doppio della facciata. Ricorda quello di piazza San Marco. Don
Francesco è un prete molto apprezzato, con capacità non comuni a stare con i giovani. Ha passato una vita con gli scout
fino a diventare l’assistente nazionale dell’agesci. Adesso è
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il responsabile del triveneto per il masci, le famiglie scout.
Ha un buon rapporto con gli altri parroci del vicariato di
Montebelluna. L’uso di pranzare assieme tra di loro quando
è possibile ha fatto superare i campanilismi di parrocchia e
di paese. Ha una storia, anche personale, con l’Africa, e un
rispettoso e tenero rapporto anche con l’anziano don Lino,
capelli bianchi e memoria storica, che condivide in maniera
naturale, da vecchio prevosto, l’apertura e il respiro francescano del parroco. Don Marconato parla diretto con i fedeli
e l’intero vicariato ha una frequenza alla messa più alta che in
altre aree del Veneto. Don Francesco dà in chiesa l’annuncio
della decisione di accogliere una famiglia siriana per rispondere all’appello del papa. E subito dopo organizzano un incontro sui Corridoi umanitari nella Sala comunale. «Qui a
San Martino il mantello si è moltiplicato» dice don Francesco. «È diventato davvero due cose, anzi tre. Ospitalità, accoglienza e nuova vitalità per la parrocchia. Nella terra dei
Benetton è nata una maglia più larga. È una specie di mistero:
come tu puoi avere appartenenze politiche che sembrerebbero andare in senso contrario, ma dall’altra tu hai il volontariato che è una forza possente, anche fuori dagli schemi.»
La parrocchia è a piazza San Giovanni XXIII, al civico 42.
Il Comune è a piazza Giovanni XXIII, al civico 1. Il Gruppo
consiliare di minoranza chiede la sala per conto dei promotori. Ma l’assemblea viene cancellata d’autorità dal sindaco,
preoccupato dal tema, l’arrivo dei profughi. E alla vigilia
dell’arrivo la contrapposizione, la diffidenza verso i migranti
che sono attesi alla fine di novembre, si fanno sentire. È una
serrata contro il loro arrivo, che riempie il giornale locale.
Chi si oppone immagina di resistere a quella che pensa essere
una decisione “di Roma” e della prefettura senza consultazione con il comune, per aprire un nuovo sprar. Il sindaco,
comunque, non ci vuole mettere un soldo. Lo scontro è dietro l’angolo, ma i promotori di Un Ponte Verso non hanno
intenzione di arrivarci. E spiegano che la situazione è diversa.
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Il 30 novembre su «La Tribuna» esce un articolo distensivo.
Non ci sono motivi per cui dei privati cittadini non possano
organizzarsi e metterci del proprio per fare una cosa intelligente e umana, trovando un appartamento e creando la rete
di sostegno per una famiglia di profughi siriani.
La situazione attuale è che con il sindaco «non ci si pesta i
piedi», cordialità. E nessun sostegno economico. Né chiesto,
né offerto, né dato. È un servizio di coesione e crescita del
tessuto sociale, ma il “pubblico” non ha ruolo e non vuole
averlo: e questo accade nella terra da cui Giuseppe Toniolo
ha lanciato le Settimane Sociali dei cattolici italiani, dove è
cresciuto il pensiero che ha dato origine alla nascita dell’Università Cattolica di padre Gemelli. Una terra che fin dalla
fine del xix secolo ha incarnato e diffuso il modello della
sussidiarietà, che è entrato anche nella Carta costituzionale
repubblicana e democratica. Strani capitomboli della storia
e dell’“italianità”.
La famiglia che arriva è originaria di Idlib. È la prima famiglia di profughi siriani che arriva in Veneto. Sono siriani
del nord ovest, che è una zona che ha avuto un significato
particolare nella guerra siriana. Idlib, infatti, è stata presa
presto dal Califfato, e quella famiglia di cristiani di media
borghesia siro-ortodossa, che aveva una propria attività commerciale, è passata prima per l’esperienza di una bomba caduta sulla casa, che ha provocato il ferimento del capofamiglia, poi per la visione delle decapitazioni in piazza. Tra le
persone sgozzate ci sono anche un cugino e un nipote. Appena possono lasciano la città e vanno in un centro vicino: la
prima tappa di una vita da sfollati è quasi sempre nella zona
sicura più vicina, perché nessuno all’inizio vuole andare via
per sempre. Se si può, ci si allontana il meno possibile dalle
proprie radici. Vale per tutti i milioni di profughi. C’è un
detto: «In guerra la prima a morire è la verità. E la seconda
è l’umanità». Nel discorso pubblico il fatto che nessun profugo vorrebbe mai andare lontano dalla propria casa è stato cancellato, in una descrizione di viaggi verso il “Bengodi”,
alla ricerca della “pacchia” assistenziale, magari su un “taxi
del mare”, invece di restare o “tornare a casa sua”. Casa sua:
spesso non c’è più, o sta in luoghi invivibili, perché si muore.
È la comunicazione che in tempi di pace è diventata come in
tempi di guerra. La realtà per i profughi arrivati a Cornuda è
che anche dove erano andati, appoggiati a dei parenti, la vita
non era più sicura per via dei raid aerei russi, magari mentre tornavano da scuola o dal mercato. Idlib è un nome che
nella lunga guerra siriana ha assunto un ruolo particolare. È
dove si sono concentrati i combattenti di Daesh, ma anche
dove sono stati fatti concentrare, via via che governativi e alleati recuperavano il territorio. E man mano che il territorio, da Aleppo ad altre zone, è stato recuperato dal governo,
per scongiurare un massacro finale della popolazione civile e
gravi perdite militari da tutti e due i lati, molti combattenti
islamisti sono stati forniti di lasciapassare per uscire dalle
città e andare in sicurezza fino a Idlib. Il problema è ancora
irrisolto. Per quella famiglia la prospettiva era di rimanere
ostaggio lì, fino all’inevitabile scontro finale tra islamisti, governativi, forze internazionali, hezbollah e russi. Per quella
famiglia la fuga in Libano è sembrata l’unica strada. Un loro
parente viveva in Italia da molti anni, da prima della guerra.
È così che si è pensato a una specie di ricongiungimento familiare. Profughi lo erano per davvero. La loro storia è stata
verificata prima di partire. Lo status di rifugiato era già implicito nelle carte di accompagnamento preparate dallo staff
di Sant’Egidio a Beirut. È per gente con questa storia che
Gianni e gli altri si sono organizzati. Il «Gazzettino» nell’edizione di Treviso aveva scritto di Un Ponte Verso: «Si tratta
infatti di persone normali, non impegnate sul fronte dell’accoglienza. È formato da impiegati, insegnanti, pensionati e così
via, che si sono autotassati per riuscire a offrire ospitalità».
«Senza nessun eroismo» aggiunge Grazia Maria. «Un
mix di professionalità, tante, che si mettono a disposizione,
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ma soprattutto un impegno umano, personale, come è ovvio
quando ci si aiuta» integra Gianpietro. «Sì, bisogna uscire
dall’aspetto eroico. Perché si tratta di fare le cose che si fanno
normalmente per noi stessi e per altri nella vita. E la parte
più importante non è mai quella organizzativa. Nel frattempo
persone che non si conoscevano si mettono insieme e una
conseguenza non cercata, ma importante, è che la vita di tutti
noi si riempie di belle persone.»
«Siamo famiglie che accolgono famiglie. Ci siamo dati un
tempo preciso per aiutare a trovare l’autonomia» dice Roberta. «E dopo questo tempo è possibile coinvolgere altri ancora e aprire una seconda esperienza. Le possibilità ci sono.
Per tutte le necessità pratiche c’è un gruppo WhatsApp che
si è rivelato molto utile. E quelli che aiutano, anche occasionalmente, sono molti di più. Tanti scoprono che è possibile
aiutare. E che è anche divertente.
Il loro futuro può avere vari sviluppi. Un radicamento qui,
o il ritorno in Siria. Oppure un loro contributo per aiutare
quelli che arrivano dopo, man mano che diventano sempre
più stabili. Possono aiutare anche come testimoni di un modello rapido di integrazione tra famiglie, che invece è lento e
può durare anni o non arrivare mai, se sono individui slegati
da tutto. Sono mediatori culturali e umani efficaci, che diventano loro stessi “un ponte verso” in tutte e due le direzioni.»
«I soldi da trovare sono stati la parte meno importante,
anche se sono necessari. Un impegno formale, regolare, anche con una piccola cifra, rende tutto più stabile. Ma ogni
famiglia che aiuta porta la ricchezza dei legami e delle relazioni in cui è inserita, e questo crea un tessuto, una rete che
aiuta ad alleggerire le fatiche. A noi permette di vivere una
sorta di comunità, di mettere insieme idee, progetti, energie,
speranze, sogni, passioni» riprende Gianni.
«Noi viviamo in un posto che è quello raccontato da Gian
Antonio Stella, il posto di schei. I soldi. Il boom degli anni
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’70 ha cambiato tante cose qui. La politica è diventata amministrazione mentre come visione del mondo, con i partiti,
è morta. Secondo me anche una certa Cornuda è morta, anche se c’è tanta brava gente viva. La parrocchia è diventata
il posto dove c’è umanità e vita, quello che nei partiti non
c’è più. E questa esperienza di accoglienza lo conferma. C’è
un’enorme umanità fuori, ma bisogna superare la paura. Altrimenti si diventa come quelli che non escono più di casa per
paura degli incidenti stradali, e smettono di vivere.»
Con l’associazione tutti sono aiutati a uscire dalle proprie abitudini e dai propri limiti, e a uscire di casa. Chi aiuta
e chi è aiutato. Il dottor Geozif, siriano, che parlava meno
italiano di tutti, ha cominciato a fare il volontario alla casa
di riposo. A sua volta, lui è seguito da due educatrici. E
così sta trovando nuove motivazioni, anche se ha perso il
suo mondo e questo lo ha visibilmente svuotato di motivazioni per lottare. Adesso ha ripreso a uscire di casa. È stato
un successo quando ha cominciato a prendere il pullman.
Una volta si è perso, ma dal giorno dopo aveva l’indirizzo
di casa in tasca.
Chi arriva non è mai “il profugo perfetto”. Tanti hanno
problemi personali, acuiti dalle tragedie vissute. Ci sono famiglie che non erano stabili nemmeno prima della guerra,
anche se si sono unite di più nella sofferenza. La fragilità
non è un’esclusiva delle famiglie italiane. Quello che distingue le famiglie che possono entrare nei Corridoi da quelle
che rimangono è uno stato di maggiore vulnerabilità. Normalmente c’è sempre, per uno dei componenti o più, anche
un problema di salute che difficilmente potrebbe essere curato. È questo che crea un’urgenza.
«Rima, la moglie, ha fatto per un po’ la badante, ma poi
ha lasciato. Da agosto 2017 fa l’aiuto cuoca, prima in prova
e poi con un contratto. Malak, la figlia, studia da parrucchiera alla scuola professionale a Feltre, e le piace. Qui il lavoro non manca. Da noi su 6.000 abitanti quasi un migliaio
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sono cinesi, marocchini e rumeni. Ma questo significa anche
che c’è una famiglia di marocchini che fa parte della nostra
associazione e che aiuta in molti modi. Non fanno solo i traduttori. Sono tra i promotori» mi raccontano.
Non di rado le cronache su Cornuda riportano anche il
lato malato degli schei e del benessere. Le cronache parlano
di criminalità, di spaccio di droga, di case con festini e, che
coinvolgerebbero maggiorenti. Sesso, soldi e cocaina in un
triangolo che arriva a Padova e Castelfranco, dove sono indagati attori, farmacisti, avvocati. Non è tutto semplice in
quella zona. Il venerdì e il sabato sera ci sono ditte che offrono dei van con l’autista per permettere ai giovani veneti
la notte dello sballo, alcool, sesso e droghe sintetiche, da un
disco club a un altro: così, almeno, si riducono gli incidenti
stradali. «Mi creda, a volte è proprio una pena, il pullmino
pieno di vomito, loro spappolati» mi racconta un operaio
che arrotonda lo stipendio con il lavoro notturno da autista nei weekend.
Anche per parlare a questi giovani Un Ponte Verso dà vita
a un evento pubblico sulle migrazioni. Lo organizzano assieme a Castelfranco per, alla Caritas e a Cittadini per la Pace.
L’obiettivo è aiutare a non avere paura, a mettersi insieme,
a capire, a immedesimarsi nell’altro. Invece dello sballo per
sentirsi vivi.
Per due settimane, poi, all’oratorio di Cornuda, sotto una
grande tensostruttura, hanno coinvolto i concittadini a entrare nella mostra interattiva “In fuga dalla Siria”, in collaborazione con il circolo Acli locale e il Granello di Senapa di
Reggio Emilia. «Se fossi costretto a lasciare il tuo paese che
faresti?» Chi entrava fisicamente nella mostra viveva nei panni
di un profugo, mentre davanti gli si aprivano tutti i bivi possibili in cerca di sicurezza: fuggire, come? Verso dove? Portarsi che cosa? Mettersi nelle mani di chi? Che fare quando
non si capisce la lingua? A chi affidarsi? Alla fine del percorso della mostra, dopo quel labirinto di decisioni da pren566-7407-1_Porte aperte.indd 18 25/09/19 14:11
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dere, non c’era una risposta giusta da dare, ma solo strade
e punti di arrivo differenti a seconda delle scelte e degli incontri che i visitatori avevano fatto.
Il risultato è stato che altri concittadini hanno capito meglio la vita dei profughi e si sono messi a disposizione. Ed è
potuta arrivare una seconda famiglia. Una coppia con due
bambini, Perla e Andrej. Il padre, Issa, ha già trovato lavoro
a tempo determinato e il modello Cornuda cresce.
«Ma voi che problemi incontrate? Detto così sembra tutto
semplice» ho chiesto.
«Non è semplice per niente. Siamo partiti che non sapevamo niente, né da che mondo venivano. Che vuole dire siroortodosso? Noi sapevamo poco delle altre Chiese cristiane.
Non abbiamo mai vissuto dentro un paese arabo, figuriamoci
immaginarci che vita si viveva in un paese “plurale”, con dentro di tutto, come la Siria. Niente era ovvio. Loro, quando
sono arrivati, non sapevano dove si trovavano, stavano come
“un ciuco in mezzo al traffico”. Mille domande e mille risposte da trovare: la raccolta differenziata, come si fa? Non basta Google per capirsi. La gestione della casa, dopo anni di
vita irregolare, diventa come tanti esami universitari da superare: tenere la contabilità, pianificare le spese, i prezzi, l’euro.
Niente è “normale”: pagare le bollette, andare alla Posta. Il
medico di base, come rapportarsi? Ci sono da imparare la
gestualità, i toni. Il fraintendimento è sempre dietro l’angolo:
basta interpretare male un tono di voce usato da un medico
per non tornare alla visita di controllo. Ma succede anche a
noi. Il suono di certe conversazioni in arabo ci dà l’impressione che stanno litigando, o che sono arrabbiati, e invece
non è così» dice Gianni Sardelli.
«E noi come potevamo capire la sofferenza ed essere al
tempo stesso esigenti? Quando piangevano non capivamo
subito il perché. Abbiamo imparato ad ascoltare, cercando
di capire prima di giudicare. Perché è facile destabilizzare i
rapporti all’interno di una famiglia quando si ha così tanto
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accesso alla loro vita, se non ci si sforza di capire. Credo che
quello che abbiamo imparato tutti, loro e noi, è stato il rispetto. E come accompagnarci. L’amicizia è la chiave, sempre. E scioglie molti problemi. È come una terapia.»
A due passi dal Piave e dalle ferite di due guerre mondiali,
dove i soldi fungono da anestetico e promettono di fare dimenticare tutto, un futuro non scontato può rinascere dalla
memoria di chi si è.
Dove il benessere alla trevigiana ha messo in crisi antiche
solidarietà ne stanno nascendo di nuove, dal basso. Solidarietà non immediatamente politiche, o religiose, anche se alcuni esprimono una forte ispirazione cristiana e la parrocchia
è di grande sostegno. Persone comuni, di provincia, esprimono la loro “imprenditorialità” e apertura internazionale
anche nella capacità di creare un nuovo modello di relazioni
sociali. E questo rinnova anche la geografia domestica, passa
per l’apertura della porta di casa e di se stessi all’imprevisto.
Mi appare come un modello replicabile. Salutare. Riduce la
tossicità della vita quotidiana.
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TRAFFICI MOLTO UMANI
Fonte : PositanoNews.it