di lucio esposito AZIONE COMUNE e Centro Studi e Ricerche Bartolommeo Capasso ,Sabato 20 luglio…
di lucio esposito
AZIONE COMUNE e Centro Studi e Ricerche Bartolommeo Capasso ,Sabato 20 luglio 2024, ore 19.30
presso Parrocchia di Santa Croce Termini, presentano Stefano De Mieri
La Pietà in Santa Croce a Termini e le altre testimonianze d’arte nel comprensorio di Massa Lubrense
Nel cuore del XV secolo, il casale di Termini vantava una chiesa parrocchiale dedicata ai Santi Arcangeli, che, nel 1521, fu sostituita dall’attuale chiesa di Santa Croce, eretta grazie alla volontà e alla devozione degli abitanti locali. Questa nuova costruzione divenne ben presto un simbolo della comunità, non solo per la sua funzione religiosa, ma anche per il suo valore artistico e storico.
Uno dei gioielli più preziosi della chiesa di Santa Croce è la pala d’altare che risale alla seconda metà del Cinquecento. Questo capolavoro, di raffinata fattura, fu probabilmente commissionato da un mecenate facoltoso con stretti legami con la capitale del Regno. Durante quel periodo, Massa Lubrense ospitava artisti di grande calibro come Marco Cardisco, Polidoro da Caravaggio, Andrea da Salerno e Girolamo Imperato, impegnati nell’abbellimento della cattedrale locale.
La Pietà di Termini: Un’opera unica di Girolamo Imperato
Tra le opere attribuite a Girolamo Imperato, spicca la Pietà di Termini. Questo dipinto è particolare per il suo supporto in rame, un materiale raramente usato per tele di grandi dimensioni (128×95 cm) a causa del suo elevato costo. L’uso del rame conferisce all’opera una luminosità e una durata nel tempo che la rendono unica. La Pietà di Termini richiama altre celebri rappresentazioni del tema, tra cui la famosa scultura marmorea di Michelangelo.
Il contributo di Stefano De Mieri alla ricerca storica
Stefano De Mieri, docente di Storia dell’Arte Moderna presso l’Università Suor Orsola Benicasa di Napoli, ha dedicato anni di studio al patrimonio storico-artistico della Penisola Sorrentina, concentrandosi in particolare su Massa Lubrense. Le sue ricerche hanno portato alla luce importanti informazioni sull’Antica Cattedrale di Santa Maria delle Grazie e sulle opere del Cinquecento che vi sono custodite. Tra queste, spiccano la pala d’altare raffigurante la Madonna delle Grazie, di Marco Cardisco, e il Battesimo di Cristo, di Girolamo Imperato. De Mieri ha inoltre attribuito a Imperato la pala d’altare di Termini raffigurante la Pietà, argomento della sua tesi di dottorato.
La popolazione dei casali di Massa Lubrense
Uno sguardo ai registri storici ci offre un quadro dettagliato della popolazione dei casali di Massa Lubrense, inclusi Acquara, Pastena, Monticchio, Schiazzano, Marciano, Termini, Nerano, Sant’Agata e Torca. Dal censimento del 1489 a quello del 1890, questi dati mostrano una crescita significativa della popolazione. Ad esempio, nel 1489, Termini contava 195 abitanti, mentre nel 1890 ne contava 632.
La chiesa di Santa Croce e le opere in essa custodite rappresentano un patrimonio di inestimabile valore per Termini e per tutta la Penisola Sorrentina. Grazie al lavoro di studiosi come Stefano De Mieri, queste testimonianze storiche continuano a vivere e ad essere apprezzate, non solo per la loro bellezza artistica ma anche per il loro significato storico e culturale.
https://www.academia.edu/116839264/_IMPARATO_TESI
- LA PIETÀ DI SANTA CROCE A TERMINI (MASSALUBRENSE)
Perduti gli affreschi Poderico, come pure le altre opere documentate agli anni 1576-77, non rimane che considerare i lavori riconosciuti dalla critica al periodo più antico dell’Imparato. Prima di passare all’analisi di questi dipinti, propongo di ricondurre all’esiguo catalogo giovanile del maestro la notevole Pietà su rame della chiesa di Santa Croce nel casale di Termini [fig. 10], presso Massalubrense, “così detto per l’altezza del loco, dal quale si vede l’uno e l’altro mare, quasi termine del Golfo di Napoli e di quello di Salerno”. 215
Finora sfuggita agli studi, la pala è quanto rimane del più antico arredo dell’edificio, documentato sin dal tardo Quattrocento ma ricostruito nelle forme attuali, un’angusta navata con altari laterali, nel corso del primo Seicento. Le visite pastorali dell’antica diocesi di Massalubrense, a partire da quella di Monsignor Nepita del 1685, riferirono curiosamente il dipinto a Massimo Stanzione. 216
La composizione rielabora il ben noto disegno di Michelangelo conservato all’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston, mediato da copie pittoriche o da interpretazioni a stampa come quelle del Bonasone e del Beatrizet. 217
Tale invenzione ebbe una certa fortuna in ambito napoletano, come documenta la copia eseguita, forse nel corso degli anni sessanta, da Giovan Bernardo Lama per la cappella degli Amodio in San Giovanni Maggiore [fig. 11], e lì ricordata a partire dal D’Engenio. 218
Il rame massese mostra di allontanarsi dal prototipo che appare notevolmente semplificato, avendo il pittore ripreso soltanto il gruppo centrale, privo del motivo degli angeli impegnati nel sorreggere le braccia del Cristo, presente invece nella replica fedele del Lama. Non appare difficoltoso riconoscere nel Cristo una tipologia affine all’analoga figura della Pietà con i santi Nicola ed Eusebio appartenuta alla chiesa napoletana di Santa Patrizia [fig. 12], mentre il languore espressivo della Madonna palesa un aspetto già tipico dell’Imparato. Meglio di qualsiasi altro dipinto imparatesco, la Pietà di Termini manifesta legami stringenti con la cultura artistica di Giovan Bernardo Lama, per una certa durezza del modellato e per il tono eccessivamente patetico e lacrimevole, che rivela una chiara familiarità con i suoi celebri Compianti, in particolare quello della chiesa napoletana di San Giacomo degli Spagnoli [fig. 8]. Ma il dipinto può essere fruttuosamente confrontato con le simili rappresentazioni, altrettanto drammatiche, di Silvestro Buono: mi riferisco a pale d’altare databili agli anni settanta, in special modo alla Deposizione della congrega dei Santi Marco e Andrea a Capuana e alla Pietà coi santi Bonaventura e Francesco del Museo di Capodimonte [fig. 9]. 219
Anche l’utilizzo di colori freddi ma intensi e la maniera seguita nel lumeggiare i panneggi denunciano analogie con lo stile del Buono. L’Imparato mostra di aver assimilato una sensibilità tutta fiamminga nel modo di levigare i corpi, modellati come nell’avorio, nell’analisi sottile e pungente del magnifico profilo di Cristo, nell’indagine dei singoli elementi attraverso una luce algida; si osservi ad esempio il legno della croce del quale restituisce minutamente la trama delle venature, un dettaglio realistico da “arte senza tempo”. L’effetto finale è quello di una pittura che, non molto diversamente dalle contrite composizioni del Lama, riesce ad assecondare le istanze devozionali della chiesa post-tridentina, grazie alla capacità di trasmettere un profondo e toccante sentimento religioso. Il rame di Termini manifesta una spiccata cura per il paesaggio, di cui l’Imparato fu uno dei più alti interpreti in ambito partenopeo. Un cielo cupo e funereo, dove si addensano nuvole disposte concentricamente intorno allo squarcio di luce soprannaturale, incombe sul Golgota, immaginato ai piedi di un dirupo di rocce scheggiate dalle quali spunta la vegetazione spontanea; al lato opposto si ergono un rudere dell’antichità classica e una Gerusalemme celeste, pietrificata e incantata. La tipologia del paesaggio, sebbene già molto personale, trova i suoi confronti più diretti negli sfondi “romanistici” dell’Assunta di San Pietro in Vinculis [figg. 1, 4], della Pietà di Capodimonte [fig. 9], del Compianto dei Santi Marco e Andrea a Capuana di Silvestro Buono. È
chiaro l’interesse condiviso con il collega napoletano per la pittura fiamminga, maturato quasi certamente sin dagli anni sessanta a contatto con le opere di diversi artisti d’oltralpe affluiti nel Viceregno come Jan van Calcar e, forse, con la frequentazione e la conoscenza diretta di personalità quali Paolo Scheffer, Hendrick van der Broeck, Cornelis Smet, e chissà quanti altri maestri nordici, in grado di far maturare esiti così profondamente romanistici e parafiamminghi nei giovani pittori meridionali. 220
Questi artisti costituirono una vera e propria alternativa al manierismo tosco-romano rappresentato da Marco Pino, ristabilitosi a Napoli dal 1570 dopo un secondo soggiorno romano, 221 e verso il quale, in una fase più avanzata della sua attività, l’Imparato non avrebbe mancato di rivolgere la sua attenzione. Nel panorama della pittura napoletana del tardo Cinquecento il quadro massese presenta una peculiarità, quella di essere realizzato su rame, un supporto piuttosto raro per opere destinate agli altari, 222 essendo generalmente utilizzato per quadri di piccolo formato di carattere privato. La realizzazione di dipinti su rame, che consente di esaltare la preziosità dei colori, non appare isolata nella produzione dell’Imparato: penso al San Giovanni in Patmos della Casa della Serva di Dio a Napoli [fig. 67] e all’Immacolata passata diversi anni fa sul mercato antiquariale. 223
La scelta sembrerebbe provare ulteriormente i profondi legami con gli artisti fiamminghi, che dovettero diffondere l’uso di quel supporto nel contesto partenopeo. In Santa Croce di Termini, nel 1578, venne fondato l’altare di patronato della famiglia Amitrano, sul quale fu collocato nello stesso anno un quadro raffigurante la Vergine fra i santi Antonio di Padova e Michele Arcangelo. 224
Tale circostanza potrebbe indicare un possibile terminus ante quem di una fase in cui la chiesa, elevata a parrocchia sin dal 1566, si dotò di nuovi arredi sacri. La pala imparatesca, collocata sull’altare maggiore, potrebbe essere stata eseguita intorno al 1575, datazione confermata dalle somiglianze che corrono con la Pietà di Santa Patrizia, una tavola che difficilmente sarà stata realizzata oltre la seconda metà degli anni settanta. Un’altra testimonianza indiretta per l’antichità dell’opera nel percorso di Girolamo proviene dalla presenza nella stessa area geografica di lavori giovanili di Silvestro Buono: la Madonna del Rosario nella chiesa dell’Annunziata a Massa Lubrense (1574) [fig. 5] e la Madonna col Bambino fra i santi Giovanni Battista e Giovanni Evangelista della cattedrale di Sorrento (1575) [fig. 6]. La diffusione di tali dipinti nel territorio è senz’altro sintomatica dell’apprezzamento locale per prodotti appartenenti ad un medesimo filone culturale e, conseguentemente, per artisti provenienti dallo stesso ambito.
In particolare, Girolamo stabilì un rapporto privilegiato con la città di Massalubrense, dove approdarono diversi suoi lavori: nel 1588 vi giunse una dispersa Pietà per la cattedrale di Santa Maria delle Grazie, nel 1592 il Battesimo di Cristo per la cappella Pisano nella stessa chiesa [fig. 75] e nel 1599 una perduta cona destinata a Santa Maria della Sanità, eseguita assieme a Giovann’Angelo D’Amato. 225
214 Il 19 febbraio del 1579 Zannoli Perino “bolognese” insieme a Battista Santillo di Napoli convennero coi governatori dell’Arciconfraternita dello Spirito Santo in Napoli “di pintare le doi facciate della nave della detta chiesa da l’uno cornicione all’altro sopra le cappelle conforme al disegno fatto per lo magnifico Giovan Bernardo della Lama […] et questo per tutta la mità del mese di maggio […]. Nella quale opera essi pittori in solidum prometteno lavorare di continuo con quattro mastri. Et questo per preczo et ad ragione de ducati otto per ciascuna fenestra tanto della finestra sfondata quanto del loco dove venerà l’Apostolo”. Cfr. G. Filangieri, Documenti, cit., VI, p. 532 (il contratto fu rogato dal notaio Cristoforo Cerlone). Ho rintracciato due inedite polizze di banco riguardanti questo stesso ciclo di affreschi: 10 aprile 1579 “A li signori mastri delo Spirito Santo ducati trenta, et per loro a Battista Santillo e Perrino Zannoli pittori dissero a compimento de ducati cento et duie in conto de la pittura fanno in detta ecclesia”; 18 aprile 1579 “A li signori mastri del Spirito Santo ducati vinti, et per loro a mastro Battista Santillo et Perrino Zandoli pittore dissero a compimento de ducati cento trenta in conto de la pittura fanno in quella ecclesia, et per detto Battista a Tholomeo de Rinaldo” (ASN, BA, Ravaschieri, 79).
215 G. B. Persico, Descrittione della città di Massa Lubrense, Napoli 1644, p. 39.
216 R. Filangieri di Candida, Storia di Massalubrense, Napoli 1910, p. 437. Finora non ho potuto controllare le Visite pastorali di Massalubrense a causa del riordino in corso nell’archivio diocesano di Sorrento, dove attualmente sono conservate.
217 Sul disegno di Michelangelo e sulle numerose repliche pittoriche e a stampa cfr. C. De Tolnay,
Michelangelo, The final period last judgment frescos of the Pauline Chapel last Pietàs, Princeton, 1971, V, pp. 61- 64, figg. 159, 340-358. Sulle stampe del Bonasone e del Beatrizet si veda E. Borea, Stampe da modelli fiorentini del Cinquecento, in Il primato del disegno, Firenze 1980, p. 269 e The illustrated Bartsch, Italian masters of the sixteenth century, New York 1995, XXVIII, pp. 271-272.
218 La proposta di identificare il dipinto, attualmente conservato nella chiesa del Buonconsiglio di
Capodimonte, con quello della cappella Amodio è di A. Zezza, Giovan Bernardo Lama, cit., pp. 5, 26 nota 19. Il dipinto fu assegnato al Lama da P. Leone de Castris, La pittura del Cinquecento nelll’Italia meridionale, cit., p. 513 nota 18; Idem, Pittura del Cinquecento a Napoli. 1540-1573, cit., pp. 250-259, 279 nota 48. Ancora nel corso del terzo decennio del secolo successivo, a Napoli il medesimo modello fu ripreso da Giovan Bernardino Azzolino nella tela attualmente esposta nel Museo Diocesano di Vallo della Lucania (P. Leone de Castris, Pittura del Cinquecento a Napoli. 1573-1606, cit., p. 319 nota 43, fig. a p. 314).
219 Sul dipinto di Capodimonte cfr. F. Bologna, Roviale Spagnuolo, cit., p. 73 nota 23; per quest’opera, oltre alla bibliografia citata nelle note precedenti, cfr. P. Leone de Castris, Museo Nazionale di Capodimonte. Dipinti dal XIII al XVI secolo. Le collezioni borboniche e post-unitarie, Napoli 1998, pp. 116-117. Sulla tavola della confraternita dei Santi Marco e Andrea a Capuana vedi supra.
220 Sui fiamminghi in Italia meridionale cfr. quanto detto nelle pagine precedenti.
221 Per l’ultimo periodo napoletano di Marco Pino cfr. A. Zezza, Marco Pino, cit., pp. 193-257
222 Nella zona del Napoletano non conosco altri casi anteriori ai celebri Miracoli di San Gennaro della
Cappella del Tesoro di San Gennaro, dipinti dal Domenichino fra il 1638 e il 1641. Cfr. Civiltà del Seicento a Napoli, catalogo della mostra (Napoli 1984-85), Napoli 1985, I, pp. 508-509, con bibliografia.
223 Vedi i nn. 11 e 42 del Repertorio delle opere autografe.
224 R. Filangieri, Storia di Massalubrense, cit., p. 437.
225 Anche per queste opere rinvio alla trattazione che se ne farà nei capitoli successivi (III e IV).
Fonte : PositanoNews.it