Nell’ambito dei giovedi al Correale, rassegna voluta dal Direttore Filippo Merola , aperta e gratuita…
Nell’ambito dei giovedi al Correale, rassegna voluta dal Direttore Filippo Merola , aperta e gratuita per residenti della penisola sorrentina, oggi 29 ottobre, si è parlato della via della seta, in tutte le sue implicazioni, sociali economiche e storiche.
Il percorso all’interno del museo non poteva che partire dalla sala dalle formelle altomedievali, quei disegni arrivarono su rotoli dei seta proveniente dal medio oriente, rappresentano la dinastia Sasanide, pregiati e preziosi vestivano le autorità dell’epoca. Il primo approccio è questo contatto , successivamente, si cerca di importare la produzione e quindi anche i semi-bachi. Ma per parlare di una vera e propria industria dovremo arrivare nel 1600, e davanti al quadro del mercato di Micco Spadaro, ne illustriamo il procedimento e la coltura. La penisola Sorrentina vive il suo momento di massimo splendora con la produzione della seta da ‘600 all”800 inoltrato. Nomi , fatti, documenti, persone, con l’aiuto del catasto del 1754 e fonti storiche dell’Archivio di Napoli, riusciamo ad avere un quadro della produzione serica e delle vicissitudini dell’industria, che sarà decapitata dalle tasse vicereali e soprattutto dalla peste dei bachi. I sorrentini è maestri nella produzione di un velo particolarmente sottile e lucido, la velata di Raffaello, e poi riceveranno i complimenti per la produzione delle calze e dei guanti , da tutta l’Italia e dall’estero. L’idea precisa materiale la danno le sedie nel salone del settecento, lavorate con disegno a rilievo leggero tinta su tinta, le stesse stoffe le troviamo quali parati nelle stanze della reggia di Caserta. Le divise di Don Gennaro Capece Minutolo e dell’Ambasciatore Caracciolo.
Gelsicoltura e bachi da seta
Legato strettamente ali’ agricoltura è l’allevamento dei
bachi; le foglie del gelso, abbondanti nella Piana, nutrono il
baco, da cui i bozzoli produttori della materia prima destinata
a quell’attività artigianale altamente specializzata che è
la produzione della seta97.
A seguito e per gli effetti dei decreti del 1739 e 17 41
emessi da re Carlo III di Borbone a sostegno del settore,
riprende vigore anche in Penisola Sorrentina la produzione
della seta. Le nuove esigenze della borghesia residente nella
capitale del Regno richiedono sempre maggiori quantità
di prodotti non solo alimentari ma anche legati allo status
symbol delle classi più agiate. Si sa che l’industria serica è
un’attività molto antica intorno al Golfo di Napoli; se ne ha notizia già durante il periodo normanno e successivamente
socco Federico II. Nei secoli del Viceregno spagnolo,
per effetto della forre pressione fiscale, questo settore
ha patito lunghi periodi di crisi, di qui i provvedimenti
emanati dalla Corona. Il Settecento è il secolo della massima
espansione dell’industria serica nel Regno di Napoli e
quindi nella zona delle due costiere, amalfitana e sorrentina.
Nella seconda metà del secolo, quando re Ferdinando
IV avvia la costruzione del “borgo della seta” a San Leucio,
anche la costiera segnala un balzo in avanti con una produzione
di sedicimila libbre di prodotto, collocandosi al terzo
posto fra i centri di produzione della regione, dopo Nola
e la stessa città di Napoli98
- Si tratta di un’attività capillare
svolta a domicilio; in ogni casa colonica vi sono uno o più
telai con una ventina di spase di agrzulillì99• Molte sono le
aziende, anche con diecine di addetti, che producono consistenti
quantità di semi e di seta. Sono quelle che forniscono
ai signori napoletani e agli alti prelati pontifici grosse
partite di calze, sciarpe, nastri, fettucce e altre galanterie.
Fra le tante ditte si ricordano quelle attive, a partire dalla
seconda metà del XVIII secolo nella zona sorrentina, delle
famiglie Castellano, Buonocore, Celentano e Minieri100
Dai documenti catastali della seconda metà del Settecento
si rilevano ben venticinque capofamiglia con la qualifica
di “votatori di filatoio”. A Maiano diverse famiglie sono
note con l’appellativo ‘‘quelle d’ ‘o cievezo”, cioè quei gruppi
familiari che lavorano con le foglie di gelso, l’allevamento
dei bachi e la seta. Il Catasto onciario segnala che nel 1754
Aniello Gargiulo è un «manifattore di zagarelle» 101 coadiuvato
da suo figlio Lorenzo e dalle donne di casa; Saverio
Sessa, Bartolomeo Gargiulo, Michele Gargiulo, Onofrio
Gargiulo sono «votatore di filatorij », anche Antonino d’Amora,
Vincenzo Gargiulo, Gragorio Gargiulo e suo fratello
Pietro sono «filatorari»; il documento ne elenca una diecina
ma sappiamo che complessivamente gli addetti sono molto
di più102
- Cattività continua anche nel secolo successivo
quando troviamo operative la famiglia De Maio e quella di
Rocco Castellano. Uno degli edifici maggiormente interessato
alla produzione era il caseggiato Scala alla via Occulto,
attiguo alla fornace, dove si sono conservati, fino alla sua
sciagurata ristrutturazione di fine Novecento, «il grande
tubo di terracotta che serviva per surriscaldare i bozzoli ed
evitare lo sfarfallamento, una vaschetta di riggiole napoletane
che serviva per la scopinatura103 dei bachi»104
- A Pastena
di Massalubrense molte famiglie, tra cui quelle dei De
Gregorio e Castellano, hanno allevato i bachi che vendevano all’inizio del mese di luglio, prima della schiusa, fino ai
primi del Novecento. Una moria negli anni Trenta di quel
secolo indusse a chiudere definitivamente quell’attività105•
Sappiamo che il prodotto sorrentino è il migliore fra
quelli che si producono nel Meridione d’Italia sia per la
qualità dei semi che per la perizia degli operatori locali,
una mano d’opera specializzata molto richiesta dagli altri
centri del Regno. Nel 1789, nel descrivere la qualità della
seta che si produce nel Regno di Napoli lo storico Giuseppe
Maria Galanti assicura che «sopra tutte le altre sono
eccellenti quelle di Sorrento e delle colline di Napoli» 106
.
Un’attività che proseguirà fra vari e ricorrenti problemi,
ma sempre con gli stessi livelli di qualità, fino ai primi
decenni del Novecento.
A proposito della scomparsa dei gelsi in Penisola Sorrentina
sono in molti quelli che ne hanno attribuito la responsabilità
alla sistematica introduzione degli agrumeti i
quali avrebbero occupato le aree dei gelseti. In realtà occorre
osservare, anche sulla base dei documenti catastali, che
i gelsi non erano coltivati in impianti organici ed estensivi
ma la loro presenza era episodica e marginale in colture miste,
lungo i valloni e i confini delle proprietà. La scomparsa
dell’attività serica, e quindi anche dei gelsi dalle nostre contrade,
va ascritta piuttosto alla forte concorrenza subìta da
parte di altri mercati, esteri e nazionali: l’importazione cinese
da un lato e dall’altro la preferenza accordata dai consumatori
ai prodotti provenienti dalle regioni del Nord Italia,
soprattutto dal Piemonte.
Altro elemento concomitante è stata l’asfissiante imposizione
fiscale esercitata sulla seta grezza con una tassazione
divenuta insopportabile per il complicato sistema dell’arrendamento
dei dazi107.
Tutto ciò è avvenuto nel momento in cui la più remunerativa
attività agrumaria prendeva corpo e si affermava
anche perché, elemento non trascurabile, era sottoposta a
un trattamento fiscale più favorevole, sottratto all’assillo dei
voraci esattori privati.
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Libro Cassa della fabbrica di sera di Rocco Castellano (1803).
74 – Libro Cassa della fabbrica di sera di Rocco Castellano (1803
Dal volume la collina dei limoni neri di vincenzo esposito
Il Setaiolo di Montechiaja
Tra la seconda metà del Cinquecento e i primi del Seicento Napoli
divenne una delle più popolose capitali d’Europa e una città
nella quale il ritmo di vita della maggior parte della popolazione
era scandito dal lavoro della seta. Brulicante di filatoi, botteghe di
setaioli, “tinte”, tessitorie, fondaci di mercanti, di stranieri e di attività
finanziarie e commerciali, la città cambiò in quel periodo il
suo volto anche dal punto di vista urbanistico. Con oltre 250.000
abitanti, entrò a pieno titolo, accanto a Firenze, Genova, Venezia e
Bologna, nel novero dei grandi centri italiani della seta.
Dalla fine del Cinquecento sulle colline di Vico, come in tutta la
Penisola fino a Sorrento, si piantarono gelsi, si diffuse la produzione
del baco da seta e nacquero delle filande. I primi a produrre
bachi da seta furono i monaci benedettini di Astapiana. La filanda
più nota nel territorio equense è di Arola. Qui vogliamo narrare
l’avventura della filanda di Montechiaja, della famiglia Di Cosenza.
Non è facile l’individuazione dei fattori che determinarono prima
la crescita e il successo e più tardi la crisi e il declino dell’industria
serica.
Lorenzio Di Cosenza era un bambino quando il padre lo portò
con sé a Napoli a vendere per conto dei monaci benedettini di
Astapiano, in quel di Arola, le matasse di seta da essi prodotti.
Il padre era un commerciante facoltoso: acquistava dai frati le matasse
di seta e le vendeva alle seterie a Napoli.
315
In quel mondo agricolo in cui la circolazione della moneta era
molto modesta, non era cosa da poco avere denaro per acquistare
beni manufatti o per pagare le tasse.
Il piccolo Lorenzio scoprì, sbarcando a Napoli, un mondo nuovo
che la sua fantasia di ragazzo non avrebbe mai immaginato. Ciò
che maggiormente l’aveva colpito delle meraviglie scoperte, era la
filanda di Napoli alla quale il padre portava le matasse prodotte dai
frati. Nel viaggio di ritorno in barca, tempestò il padre di domande
e non soddisfatto, volle essere condotto dai monaci per vedere
come loro producevano le matasse di seta. Il padre guardiano prese
a benvolerlo e fu ammaliato della sua curiosità dello spirito
d’osservazione e del suo desiderio di conoscenza. E così si offrì di
fargli da maestro e lo ammise al lavoro della seticoltura. Il Di Cosenza
scoprì che la seta è prodotta, innanzitutto, dal lavoro dei bachi
che sono dei vermi; che i bachi si nutrono delle foglie del gelso
e che l’albero, per crescere, deve affondare le sue radici nella terra.
Siccome la terra era dei padroni, il guadagno maggiore andava a
316
loro. Ecco perché la produzione di bachi la tenevano soltanto i
frati che erano i padroni degli alberi di gelso. Scoprì che il lavoro
più gravoso non lo facevano i frati e neanche i bachi ma le donne
e i bambini che i frati reclutavano. Essi ricevevano ben poco per
un lavoro pesante e sporco come quello dell’allevamento dei bachi.
Era comunque un qualcosa di utile perché capitava nel periodo
dell’anno in cui le donne e i bambini soprattutto non avrebbero
avuto altro da fare. Il loro tempo di lavoro aveva valore zero. Un
po’ di denaro era meglio di niente.
In primavera il piccolo Di Cosenza, come poteva, scappava dai
frati a osservare la bachicoltura e la trattura, stadi decisivi nella
produzione della seta. Il baco da seta, verme di colore biancastro
della lunghezza di circa 5 cm, per produrre la sua bava filamentosa
(filo di seta) si doveva cibare con le foglie del gelso. Nel suo periodo
di fecondità, espelleva le sue uova che venivano, poi, deposte
al caldo di un panno di lana che produceva una temperatura
superiore ai quindici gradi. Un altro sistema era di deporre le minuscole
uova (in un’oncia, 27 grammi, ve ne erano circa 60 mila)
sotto il materasso del letto, oppure molte donne le portavano al
seno, contenute in un panno e ne facilitavano la schiusa con il calore
corporeo. La schiusa delle uova avveniva dopo quattordici
317
giorni. Le larve, di colore grigio nerastro, erano poste su graticci di
canne, i cui piani erano coperti di carta, e alimentati con foglie tenere
di gelso bianco finemente tagliuzzate.
Nei primi giorni, il lavoro si limitava alla raccolta e alla frantumazione
di una congrua quantità di foglie di gelso ben asciutte,
fresche e pulite e, almeno ogni quarantotto ore, dovevano inoltre
essere sostituiti i fogli di carta che raccoglievano gli escrementi.
Più i bachi crescevano, più aumentava il loro appetito. Nel corso
della loro crescita subivano quattro mutazioni della pelle, mutandone
anche il colore fino ad arrivare al bianco o giallo: la prima
muta avveniva al 5° giorno dalla schiusa, la seconda al 10° giorno,
la terza al 16°, la quarta muta al 23° e, al 33° giorno di vita, i bachi
incominciavano a secernere la bava emessa da un organo detto ‘Jìfera”,
posto sotto la bocca, iniziando così la costruzione del bozzolo
vero e proprio di colore bianco.
Dopo quindici giorni, il baco, cresciuto della lunghezza di un dito,
emetteva una secrezione rossiccia, scioglieva poi la sostanza
gommosa agglutinante che univa i fili, li divaricava senza romperli
e usciva all’aperto con l’aspetto di una tozza farfalla bianca incapace
di volare e di nutrirsi perché dotata di un apparato boccale rudimentale
privo di organo succhiatore. Nei restanti 5-6 giorni, seguivano
l’accoppiamento, la deposizione di circa 500 uova, quindi
la morte che terminava il ciclo dell’animale. Per l’utilizzazione della
seta, però, era necessario intervenire prima dell’uscita della farfalla
dal bozzolo, poiché la secrezione rossastra emessa dal baco per
aprirsi il varco avrebbe irrimediabilmente macchiato la seta. Questa
avrebbe perso alcune sue peculiari caratteristiche come il candore
e la lucentezza e il lavoro di filatura sarebbe diventato impossibile.
Perciò, prima dell’emissione della sostanza rossastra, la crisalide
era sfilata e i bozzoli erano ammassati in un recipiente con
acqua bollente, in modo che le varie “matasse” si amalgamassero
in un’unica poltiglia. Questa fase di lavorazione era chiamata trattura.
Poi, con un’asta di legno, alla cui estremità vi erano due lunghi
chiodi che servivano a filare la poltiglia, si estraevano tre fili di
seta che si “ammatassavano” da un chiodo all’altro, fino a com318
porre la matassa vera e
propria della lunghezza di
circa un metro. Le matasse
di seta grezza erano
immesse sul mercato per
poi essere ancora raffinate
e vendute come seta
pura nei mercati di tutta
Europa.168
Aumentando il numero
dei bachi cresceva anche
il fabbisogno di foglie per cui i padroni furono incoraggiati a piantare
gelsi per vendere le foglie. Per pagare il loro debito, i frati davano_
in cambio la seta con la quale a loro volta i setaioli pagavano
1 frati. Un genere così prezioso come la seta svolgeva di frequente
le funzioni di vero e proprio mezzo di pagamento.
Quando incominciò a frequentare Napoli, Lorenzio Di Cosenza
imparò che i tessuti di seta erano beni preziosi e ciò non si poteva
arguire dall’irrisorio compenso che i frati davano alle donne con i
loro bambini. Il prezzo delle sete era così alto che pochi ne poteva~
o acquistare. Di drappi di seta potevano vestirsi i re, i principi, i
p1u alti esponenti della nobiltà e i mercanti più facoltosi. Di seta
erano i paramenti sacri delle chiese più ricche. Sempre più interes-
168 ~~ un~ c~·o?aca del tc.1npo
1
si .legg~: I bach~ “in caso_,di !lece:rsiti:ì, 11011 essendo sp1111tate le Jo,glie di
Jllon .(ge!rt) sz etbano delle ct111e d or/tea, dt oh110 o dt latt1ca. /j dopo z/ don11ire della terza, deslati che sono,
l!Jcll{_f!,IOl!O altri o~o gionu~- e poi d~nvo110 1111’a!tra volta. Et questo si chit1111a donnire della xrossa: e q11e/li che
fClra11110 la seta gNdla, 111ostra110 ti ventre loro co111e d’oro, e q11e!!i che sollo per/aria bianca, /o 111ostrano di
colore rFa1lj,e11to, 011e_allhm~, ~11e/!t~ ~he ((g~ven1a110,_ conoscendo~t~ 111ettendoli sopra le frasche secche di ginepro,
scope, ftla1 sc1n11enlt, ravu .d, g11erc1e, o d, castagni. La seta st calla dai boccioli posti in 1111a caldara sopra
q~1a/che f~n1ell~i la quale .si ratto~e sopra a!c1-11ie raspe, et poi !ltÌ in 1J1a110 a/ Ba11ellaroi che coi pettini la pettina,
eco, c~1i1 /a ca.1tegg1a, et po, alle 111aestre, ch 1adopra110 i cotft~ e le crociol!e, qNindi al/1A’–!!,llindilatore che
I~ !Jlefte ::Il gt1111da!ti e a/.fi!ato~o, che la.fila, J1sa11do il 111olù10, i rocche!!t~ ijitsi, le coro11ellei e anel!a loro; e
Jt!ata ~h e !~111~ p11r nella 1:1~111 delle do1111e, che !’adopia11 ancora sopra rocche/li, e torno a11co al filatoio à
torce,:rt, e dt poi torta va al .I tntore. n
319
sato alla produzione e frequentando
certi ambienti scoprì che a parità
di peso, il valore di un drappo di
seta era pan a circa un decimo di
quello dell’oro.
Contribuivano, a determinare un
prezzo così elevato, prima di tutto i
costi della materia prima, che proveniva
ancora, in massima parte, da
regioni lontane: dal Vicino Oriente
e persino dalla lontana Cina. Vi contribuivano anche i salari della
manodopera qualificata e le spese per le attrezzature impiegate.
Anche i costi per lo smercio di beni così preziosi erano elevati. Per
nave non potevano essere trasportati, dati i pericoli di deterioramento,
oltre a quelli di furto e di naufragio. Raggiungevano i clienti
delle città europee a dorso di mulo, per sentieri impervi, con rischi
considerevoli.
Di Cosenza scoprì anche che la produzione di seta nel napoletano
era recente perché prima essa era monopolio delle regioni del
nord. Era da pochi decenni che si era diffuso. A Vico qualche nobile
aveva provato a imporre ai suoi mezzadri di piantare gelsi e di
lavorare al telaio per tessere la seta ma con risultati non eccellenti.
I proprietari fondiari sfruttarono la congiuntura favorevole moltiplicando
il numero dei gelsi sulle proprie terre: spesso accanto ad
altre coltivazioni o in sostituzione di esse. Nei contratti di affitto i
coloni erano talora tenuti a piantare gelsi. Allora un terreno con
gelsi rendeva intorno al 10 per cento annuo del suo valore, ben più
degli altri terreni coltivati a grano o a viti.
Lorenzio, decise di sviluppare il commercio del padre facendo il
trattore, cioè comprando i bozzoli e producendo lui le matasse, cioè
la seta grezza che era molto richiesta e ben pagata non solo a Napoli
ma dai commercianti del Nord che a Napoli venivano a com320
prarle. La torcitura di più fili di seta tratta per ottenere il filato vero
e proprio e la tessitura erano svolte, non a Vico ma a Napoli oppure
nelle città del Centro-Nord. In questi centri di produzione di
tessuti la materia prima era smerciata dai mercanti settentrionali,
per lo più genovesi, con buoni profitti. Fonte di entrata la seta lo
era anche per i contrabbandieri, che, “nonostante li rigorosi banni” -si
scriveva-, la trasportavano per mare e la sbarcavano “di notte nella
costa di Posilipo, Chictia, Santa Lucia, Marina del Carmine … ‘~ da dove
prendeva infine la via delle botteghe napoletane.
Lorenzio convinse i monaci a vendere a lui i bachi per bollirli e
ricavarne le matasse. Non fu difficile perché i frati furono contenti
di liberarsi di questa fase della produzione delicata e faticosa; gli
vendettero volentieri le caldaie per la bollitura, realizzando moneta
contante. Fu così che Di Cosenza pensò di costnùrsi a Montechiaja
un locale di cottura ove collocò le grosse caldaie dei frati. In un
altro locale sistemò gli ingegni per avvolgere le matasse. Egli aumentò
i suoi guadagrù a scapito delle donne e dei bambirù di Arola
che non trattò meglio dei frati; anzi ne approfittò ancora di più.
Quando quelli di Arola si lamentarono con lui per aver loro sottratto
o mal pagato il lavoro, propose loro di portargli le foglie dei
gelsi, promettendo lauti compensi. Siccome i contadini non erano
padrorù dei gelsi, dovevano in pratica rubarle le foglie per venderle
al Di Cosenza.
Fu così che il giovane industriale intraprendente realizzò il ciclo
completo della produzione dai vermi alla matassa a scapito dei lavoranti
e dei produttori delle foglie. Questo durò fino a quando i
frati e gli altri proprietari non pensarono di reagire, chi con la
scomunica, chi con la denuncia, chi con l’aggressione. Di Cosenza
si fece nemici anche i gabellieri di Napoli perché tutto il suo
commercio era, diremmo oggi, in nero, per sottrarsi al pagamento
321
della gabella imposta dal governo napoletano e appaltata a grandi
,i:a m1· gl i e. 169
A Napoli a quei tempi la gabella era esercitata ai Banchi Nuovi
da parenti del Vescovo di Vico Antorùo Imperato e una parte del
valore della seta andava a firùre nelle casse pubbliche. O meglio,
sarebbe dovuto firùre. Già nel 1605 l’entità del prelievo fiscale, fino
allora di un carlino e mezzo per libbra, era stato aumentato a
due carlini. Invece il Di Cosenza, dando una mazzetta al Portolanoto
della Marina di Piano, riusciva a farla franca. Purtroppo per
lui, un brutto giorno qualcuno fece la spia e attirò l’attenzione su
di lui non solo dei gabellieri ma anche del feudatario che voleva
avere il monopolio del commercio della seta e a stento sopportava
la concorrenza dei frati, figuriamoci se poteva sopportare quella
del Di Cosenza.
Le esportazioni di seta greggia verso l’Italia settentrionale erano
diminuite drasticamente sia a causa delle difficoltà delle industrie
settentrionali, che anche in seguito all’espansione della gelsicoltura
nel Centro-Nord. Le industrie toscane, lombarde, venete, non
avevano più bisogno di acquistare le sete. La congiuntura favorevole
di cui la regione aveva beneficiato nel Cinquecento,
s’interrompeva. Non solo l’espansione della gelsicoltura si arrestava.
C’era chi cominciava ad abbattere gelsi per sostituirli con altre
coltivaziorù più remunerative.
“Già si è incominciato dalliparticolari a tagliare alberi di celsi et arare li territori
dove stanno li detti ce/si per se1ninarli di grano et altre vittNaglie, piantando
anche in essi piedi di olive, per esserli detta ind!4stria di seta più presto
dannosa che utile”: si scriveva nel 1640 in una relazione della Som-
169
Scriveva Tominaso Ca111panella nel 1636, pur esagerando nell’entità del peso fiscale sulla
seta: “Povera gente! Uno che esegue, faticando un’intera giornata, la trattura dei bozzoli di
una libra di seta, preparandosi a venderla per quindici carlini, deve versarne undici al fisco
mentre la consegna al setificio, la vende, la pesa. Cosa incredibile! 11 (1~. Campanella, Doc11JJienta
ad Gallor111JJ 11atio11e111, in Id., Op1tscoli inediti, a c. di L. Firpo, Firenze 1951, p. 93).
322
maria e, in effetti, proprio negli stessi anni la produzione di seta
greggia si era ridotta rispetto alla fine del secolo precedente: c’era
stato un calo del 40 per cento.
Una brutta mattina Di Cosenza come al solito s’imbarcò col suo
sacco pieno di matasse sulla feluca che andava a Napoli, dopo aver
allungato al Portolanoto di Piano il solito obolo che quello furtivamente
aveva posto in saccoccia. Non sapeva che a Napoli non
sarebbe andata liscia come sempre. E non poteva accorgersi che,
dopo aver lasciato la riva, due sgherri calabresi del Barone Ravaschieri
avevano furtivamente controllato i suoi gesti, avevano invitato
il Portolanoto nella sua gabbia e lo avevano ben pestato di
botte e lasciato sanguinante a terra, dopo avergli svuotato la saccoccia.
Al molo del Carmine lo aspettavano il gabelliere, un frate
di Arola e due gendarmi. Gli sequestrarono il sacco di matasse e lo
portarono dritto alla Vicaria, accusandolo di contrabbando. Fu liberato
dopo un po’ di giorni avendo pagato una forte multa, grazie
ai buoni uffici di un parente calabrese ben introdotto al Tribunale,
con la promessa che non avrebbe più esercitato il mestiere.
Così fu. Saranno i suoi nipoti nel XIX secolo a riprendere il mestiere
e a costruire una filanda che nel periodo di maggiore floridezza
avrà anche trenta dipendenti, grazie alla collaborazione del
Conte Luigi Giusso. Questi acquisterà dall’erario del Borbone la
tenuta di Astapiana e vi pianterà oltre 3000 piante di gelso.
Quell’industria finirà definitivamente dopo l’unificazione del Regno
d’Italia.
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Dal libro cenni storico descrittivi della citta di castelammare di pariso del 1842
ìji industria dei bachi da seta è lienanche con gran vantaggio
c diligenza da molti qua particolarmente coltivata, e principale riguardo
ne merita il cavalìer Lorenzo Boccapianola cne niente lascia
intentato per attivare nella sua Villa-Donica questa utilissima
industria serica , avendovi finanche stabilita per lo innanzi
una buona fabbrica di organzino e di altre manifatture, la quale
Ero da qualche tempo non è più in esercizio e sembra estinta,
I scia di Quisisana è in gran pregio tenuta dai negozianti , e
per generale opinione merita la preferenza fra tutte le altre del
nostro regno –
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Dal libro: la donna della penisola sorrentina di cecilia coppola e rosellina gargiulo
Ci narra che in tutta la penisola sorrentina
vi erano famosi allevamenti del baco da
seta, fra i quali quello dei Castellano sulla
Meta-Amalfi, in località Genzio e quella dei
Massa in Sorrento e in particolare ricorda quella
dei Veniero a Petrulo, dove le giovani fanciulle
della famiglia allevavano i bachi da seta e
dopo un particolare processo di bollitura ne
estraevano il prezioso filato, che, a sua volta,
veniva acquistato dalla fabbrica di tessitura
della famiglia di Gaetano Russo, di cui Rachelina
era la figlia.
La giovinetta, già all’età di tredici anni, era
stata inviata a Napoli ad imparare la preziosa
arte della tessitura in seta.
Divenne istruttrice, nel suo paese, di ben tredici
apprendiste che avevano il delicato compito
di preparare le calze, i guanti, su misura, per
il Vaticano. Di seta verde se i paramenti erano
di quel colore, di seta rossa se rossi, di colore
viola se viola, una civetteria del tutto cardinalizia.
Preparavano anche sciarpe e berretti in seta
per la tarantella. Le giovani donne industriali
della seta e del ricamo sono ricevute nel 1925,
anno santo, dal Papa Pio XI e spicca fra tutte
per eleganza, disinvoltura la signora Gargiulo,
moglie del famoso poeta Saltovar e nonna di Bigia
Iannuz”zi, che conduceva una sua azienda
per il fine ricamo sorrentino al corso Italia, di
fronte al negozio della Gallone. All’avvicinarsi
del Pontefice, la giovane donna gli si rivolge
con queste parole: ”Santità, la signorina Rachelina
Russo, qui presente, è colei che da Sorrento,
produce per il Vaticano, le calze e i guanti
di seta”. A tale frase, il Papa replicò: “A lei,
due volte la mia benedizione!”
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Da: Guida della città di sorrento del 1856 di carlo merli.
INDUSTRIE
I filugelli o bachi da seta, nastri e veli per tavaniere.
È d’uopo far conoscere, che abbcnchè lungo le diverse strade
di Sorrento, si vedano delle vetrine con delle mostre di nastri, si
sappia che queste botteghe non appartengono che ai semplici ven<.
lilori, ma che in oggi i fabbricanti di queste seterie son <.luc, Francesco
Antorllo Coso/o al la rgo del Castello, e la signora O. Maria Fiorentino
vicino la chic!oia di S. Francesco.
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Già nel Medio Evo l’allevamento del baco e la lavorazione del suo filo erano molto sviluppati in Penisola: nel XIII secolo non solo i nobili, ma anche i popolani portavano usualmente abiti ed accessori di seta.
Per rinvenire, però, una vera e propria industria della seta, dobbiamo arrivare al XVI secolo durante il quale si diffonde la manifattura casalinga della tessitura con piccoli telai, che appagava in parte il fabbisogno locale ed in parte le richieste dei negozianti napoletani.
Nel 1700 molti fondi erano coltivati a gelso: le donne delle famiglie contadine si occupavano della sua coltura e della raccolta delle foglie e, durante il periodo di incubazione del seme-bachi, lo conservavano spesso in seno o sotto i cuscini dei loro neonati.
I semi venivano portati in zone fresche (Faito o Agerola) quando non erano disponibili le foglie, per questo la Penisola era anche molto famosa per i suoi bachi “tardivi”, fatti nascere nel mese di luglio, che venivano esportati soprattutto nel Nolano.
In ogni casa c’era un telaio e le madri insegnavano alle figlie i delicati accorgimenti per una perfetta filatura e tessitura, in particolare delle fettucce (“zagarelle”); erano gli uomini, poiché i mangani erano pesantissimi, che attendevano alla trattura. La trattura è la fase in cui si dipana il filo dal bozzolo che viene immerso in acqua calda per ammorbidire la sericina, cercati i capifila se ne fa una rosa e si inizia a tirare (da cui trattura) tenendo ben unito il mazzetto delle bave
La “trattura alla sorrentina” era molto rinomata perchè rendeva il tessuto finissimo e senza difetti, particolarmente apprezzato.
Grandi e piccoli forni, ancora esistenti, testimoniano la larga diffusione della manifattura domestica.
Gli strumenti della filatura e della tessitura erano molto semplici ma tecnicamente essenziali. La presenza di “votatori di filatoio” induce a pensare alla “ruota”.
Il filo serico, di grande pregio e fama, non era impiegato solo per la manifattura di abiti ed accessori, ma anche per realizzare lenze e reti da pesca molto richieste, soprattutto dai pescatori procidani ed ischitani che venivano fin qui per acquistarle.
La dinastia borbonica innescò una ripresa di tutte le attività produttive del Regno: la Penisola trasse profitto dalla favorevole condizione dei mercati e aumentò la sua produzione serica che nel 1789 ammontava a 16000 libbre annue.
In questo secolo emersero delle significative figure di mercanti–armatori come i Cafiero, i Maresca ed i Castellano che, accresciuta l’entità dei loro d’affari, stimarono utile avere a disposizione navi per un commercio più veloce e controllabile.
Le prime fabbriche nacquero nel 1800. Il primo a Sorrento fu Francesco Antonio Casola che, nel 1835, iniziò col produrre nastri di seta usati per decorare i berretti dei marinai dell’armata borbonica e nel 1843 impiantò i primi telai per realizzare sciarpe rigate a più colori.
Tra le fabbriche più affermate ci fu anche quella dei fratelli Maresca, che, da piccola azienda a conduzione familiare, era già assurta a vera e propria dignità industriale al tempo di Ferdinando II di Borbone. Vi erano in funzione ben 60 telai di ferro, modernissimi per quei tempi, e vi lavorava un numero corrispondente di operai. Vi si tessevano seta e lana e al lavoro degli operai si affiancava quello di decine di ricamatrici, cucitrici, stiratrici che completavano e rifinivano i tessuti o erano impegnate ai filatoi e all’annaspamento dei filati sui rocchetti.
Specialità della fabbrica era la seta per vesti e paramenti ecclesiastici, in particolare calze e guanti nei colori prescritti per ogni singola cerimonia o gerarchia. Da notare che quei telai conferivano ai guanti l’esatta e giusta forma della mano facendo ingegnosamente risaltare il “monte di Venere”, cosa che nessun’altra industria analoga era mai riuscita a fare.
Cliente del Maresca per i costumi teatrali fu il San Carlo di Napoli, ed è in proposito da ricordare una calzamaglia rosa che il capo operaio Russo lavorò per la celebre Adelina Patti. Si trattava di un capo di seta comprendente guanti e calze con le misure precisissime fino alle dita delle mani e dei piedi e particolari correzioni anatomiche nel busto.
In seguito l’avvento di macchine più semplici, che richiedevano minor impegno nella lavorazione, ma dalle quali non c’era da aspettarsi la stessa finezza e precisione, la difficoltà di reperire nuova mano d’opera specializzata da sostituire alla vecchia, la nuova moda delle calze da donna senza cuciture longitudinali, la fine della richiesta dei berretti di seta per il ballo della tarantella, delle sciarpe, delle borsette ecc. inflissero un duro colpo all’industria locale, che per qualche tempo tentò, ma inutilmente, di mettersi al passo con i nuovi tempi: con l’unità d’Italia venne facilmente sopraffatta dalle grandi industrie del nord.
Se a ciò aggiungiamo l’infezione di pebrina che colpì i bachi e l’emergere di colture più redditizie, come quella degli agrumi, delle noci e dell’olivo, si capisce come mai un’attività così ricca e produttiva finì nel dimenticatoio.
Ai primi del 1900 i telai erano ridotti a poche decine. A tale periodo risale il tentativo della moglie dell’armatore Cafiero di Meta, di reimpiantare la coltura del gelso in penisola escogitando un metodo di coltivazione alternativo, basato sulla convivenza del gelso con le altre colture più redditizie come gli agrumi e l’olivo. Fu per tale motivo che acquistò le terre dei principi Lanza a Meta che furono divise in tanti appezzamenti con un albero di gelso al centro.
Ancora per qualche decennio l’industria della seta sopravvisse, soprattutto per opera dell’ex capo operaio della fabbrica Maresca, Gaetano Russo, che ancora nel 1925 riceveva riconoscimenti da Papa Pio XI per la sua produzione di guanti e calze per tutte le gerarchie ecclesiastiche. d
L’inizio di questo declino coincise, fortunatamente, con lo sviluppo di un’intensa attività di ricamo, che permise alle donne dell’epoca di esprimere e affermare la propria personalità e di lasciare compiute testimonianze “dell’arte paziente e gentile”.
Della nostra industria serica, di antichissima tradizione e rinomata nel mondo, rimane soltanto il ricordo.
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Però, si ritiene che il nome “schizzariello “ derivi da altra motivazione! Sorrento, fino ai primi anni del XX secolo, ha prodotto seta, usufruendo dello sviluppo dell’allevamento del baco da seta, con la coltivazione del gelso ed in questo largo si svolgeva il mercato dei “filugelli” (nome scientifico del baco da seta). Queste larve respiravano emettendo una specie di ….. sputo, che andava oltre i cestelli nei quali erano contenuti. Perciò “schizzariel/i”. Una volta vi si svolgeva un “piccolo mercato”, ma da molti anni è occupato da tavoli e sedie dei bar che ivi hanno la loro sede.
Palazzo Schifanoia affresco di Francesco dal Cossa
SETA: lavorazione, tessuti, proprietà
LAVORAZIONE
Raccolta
I bozzoli devono essere raccolti prima della schiusura della crisalide e della conseguente foratura da parte della farfalla.
Spelaiatura
Eliminazione della bava che il baco secerne all’inizio e che rimane attaccata in parte al bozzolo ed in parte alle frasche che compongono il bosco (cascami grezzi).
Stufatura o Essiccazione
- La stufatura rappresenta la tecnologia tradizionale. I bozzoli vengono posti in stufe e sottoposti ad un trattamento di circa un’ora con vapore acqueo a 70-90°C, in modo che la crisalide muoia; poi vengono lasciati essiccare naturalmente (tre-quattro mesi).
- L’essiccazione rappresenta la tecnologia industriale; il processo è stato messo a punto alla fine del XIX secolo. Il bozzolo dapprima rimane per 2-3 ore a 90-95°C, in modo da uccidere la crisalide, successivamente la temperatura scende gradualmente, in 6-8 ore, sino a 50-55°C. In questa 2^ fase il calore viene assorbito dal contenuto in liquido della crisalide ed il bozzolo si essicca senza che si danneggi la seta. Il bozzolo può quindi essere conservato per lungo tempo prima della sua lavorazione.
I primi forni erano simili a quelli dove si cuoceva il pane, ma più grossi, situati di solito sotto un porticato all’aperto, attualmente s’impiegano essiccatoi costituiti da forni a ventilazione forzata.
Spelaiatura
Ulteriore eliminazione delle bave superficiali (cascami grezzi)
Cernita
Eliminazione dei bozzoli difettosi (cascami grezzi)
Crivellatura
Serve a classificare i bozzoli in base alle dimensioni e alla qualità (colore, grana ecc.).
Essi vengono passati ad un crivello che li divide dalle dimensioni più piccole a quelle più grandi:
- semireali
- reali
- realissimi
I bozzoli di diametro inferiore a 0,8 cm vengono scartati.
Macerazione
I bozzoli secchi vengono immersi in acqua calda (80°C circa) in modo da ammorbidire la seracina e si possa liberare il filo continuo della seta.
Scopinatura
Con una specie di spazzolino, i bozzoli vengono strofinati esteriormente per ripulire i filamenti esterni (cascami grezzi) e trovare il capo buono della bava (capofilo).
Trattura
I bozzoli vengono posti in bacinelle piene d’acqua calda dolce (*), cosicché la seracina si mantenga morbida.
Per ottenere il filo di seta è necessario raccogliere da 3 a 10 capi dei bozzoli (a seconda del diametro del filo), in quanto i singoli filamenti sono talmente sottili da rompersi con facilità.
Le bave vengono fatte passare attraverso l’attaccabave (una rotella metallica) e raffreddandosi si saldano per merito della seracina, formando la seta grezza.
Dell’intera lunghezza delle bave (800-1500m), si utilizzano solo 600-700m, la parte iniziale viene eliminata con la spelaiatura, gli ultimi 200m di fibre sono come fusi insieme (cascami grezzi).
Torcitura e aspatura
Tramite un numero di torsioni stabilito e una fase di fissaggio delle singole bave con calore umido, i filamenti diventano più resistenti ed idonei alla tessitura.
Terminato questo trattamento i fili vengono avvolti attorno a un aspo.
Sgommatura
A causa della presenza della parte gommosa, costituita dalla seracina, la seta grezza si presenta ruvida e poco lucente, poco adatta alla tintura e non è possibile trattarla ulteriormente.
Attraverso dei lavaggi in soluzioni d’acqua saponose, si elimina la seracina e si ricava la seta:
- cotta o sgommata: totalmente priva di gomma, costituita da sola fibroina, formata da fibre isolate ed omogenee, risulta morbidissima e molto lucente. Si ottiene con lavaggi con soluzioni saponose a 90-95° C;
- semicotta o raddolcita o “souplè”: eliminazione parziale della gomma, qualità inferiore alla precedente, ma più lucida della seta grezza. Si ottiene con un lavaggio acido;
- seta cruda: eliminazione del 5-10% della gomma, piuttosto ruvida. Si ottiene con un lavaggio blando.
Carica
In questo trattamento la seta cotta riacquista il peso, ridotto del 20-25%, dalle operazioni di sgommatura; inoltre acquisisce consistenza, corposità al tatto e crepitio all’udito, diventa più resistente al lavaggio e ai trattamenti meccanici e può essere tinta con maggiore facilità.
Alle fibre della seta vengono fatte assorbire sostanze vegetali (tannini), o minerali (cloruro stannico, fosfato e silicato di sodio) o le une e le altre insieme.
La carica può essere:
- alla pari quando si compensa completamente il peso perduto
- sotto alla pari quando si recupera meno del peso iniziale
- sopra alla pari quando l’aggiunta supera il peso iniziale. Questa tipologia consente di realizzare forti guadagni, in quanto la seta è venduta a peso. Purtroppo le cariche saline eccessive comportano perdita di elasticità e tenacità, indurimento, fragilità; di conseguenza, sul tessuto si formano facilmente screpolature e rotture nei punti di maggiore usura.
TESSUTI
Sottoponendo a differenti lavorazioni meccaniche le varie sete, vengono prodotti diversi tipi di filati tra cui ricordiamo:
- Organzino: è il filato prodotto con le sete grezze di qualità migliore, sottoposte a doppia torsione, prima e dopo l’accoppiatura dei due fili interessati; ha un’elevata resistenza meccanica. E’ formato da un filo ritorto in un senso accoppiato e ritorto con un altro filo nel senso opposto (4 giri al centimetro), usato per l’ordito. Questo filato viene usato per la produzione di diversi tessuti fra cui il taffetà e l’organza.
- Crêpe: è simile all’organzino ma più fittamente ritorto (da 16 a 32 giri al centimetro); si ottiene trattando il filato, fortemente ritorto, con vapore d’acqua tra un torcitura e l’altra. Questo trattamento produce un restringimento del filato che assume un aspetto ondulato, increspato.
- Trama: è un filato di seta di qualità inferiore, meno tenace e resistente dell’organzino perché subisce una sola leggera torsione all’atto dell’accoppiatura dei fili (tre o quattro giri).
- Ritorto per trama: è composto da uno o più fili e ritorto in un solo senso (da 8 a 16 giri al centimetro).
- Ritorto singolo: ritorto in un solo senso con un numero di torsioni variabili a secondo della qualità, per tessuti lisci e sottili.
Cascami della seta
I cascami derivano in parte dai rifiuti dei bozzoli ed in parte dagli scarti della filatura e della tessitura, sono formati da fibre corte, poco resistenti, peluriose ed opache; essi costituiscono fino al 60-70% del totale ottenuto dai bozzoli.
I cascami grezzi sono:
- Gallettame: costituito da fibre provenienti da bozzoli difettosi;
- Spelaia: è un prodotto scadente costituito da filamenti irregolari aggrovigliati e accompagnati da sudiciume;
- Struse: fibre che vengono rimosse dalla superficie dei bozzoli durante le operazioni di scopinatura; la quantità ottenuta si aggira attorno al 25% della seta grezza prodotta;
- Strazze: residui della torcitura e filatura.
Da tutto questo materiale si ricavano le schappe: fili di seta a fibra discontinua (lunghezza della fibra 500 cm circa). Questa è una seta di seconda qualità, che comunque al tatto risulta molto fine e più calda rispetto alla seta grezza; si usa per tessuti non troppo leggeri come frange, nastri e passamaneria.
I cascami lavorati sono:
-
- Filusella: filato pettinato;
- Filaticcio: filo di seta che si ricava dai bozzoli sfarfallati, cioè bucati dall’uscita della farfalla.
- Fantasia: filati di struse o altri cascami misti a cotone o lana;
- Buretta: filato ottenuto dai cascami di lavorazione delle schappe, costituito da fibre cortissime (> 3 cm). Sono tessuti grossi, irregolari, poco luminosi, con dei nodi che provocano degli ingrossamenti, ma caldi e resistenti.
Dallo sfilacciamento di stracci di recupero della tessitura si ottiene la seta meccanica.
Dai ritagli e dai sfridi di lavorazione dei tessuti si ricava la seta rigenerata.
CARATTERISTICHE
Proprietà esteriori
- materiale leggero: dipende dalla carica e dal titolo del filo
- sezione della fibra: non è costante in tutto il bozzolo (all’inizio la bavella è più fine, s’ingrossa negli ultimi strati del bozzolo); la seta cruda ha difetti e rigonfiamenti, la seta cotta è uniforme
- rigonfiamenti: la seta cruda presenta spesso rigonfiamenti dovuti ad accumuli di sericina, mentre la seta cotta è liscia
- la lucentezza è tanto maggiore quanto più è pulita la superficie del filato e quanto più è rotonda la sua sezione, caratteristica che la seta acquista dopo la sgommatura
- la mano della fibra (**): dipende molto dall’origine della seta e se la seta è cruda: mano sostenuta o cotta: mano morbida
- il craquant è il caratteristico fruscio della seta per lieve sfregamento. Si ottiene trattando la seta in bagno saponoso e poi immergendola direttamente in un bagno di acido forte
- se esposta alla luce ed all’aria perde tenacità ed ingiallisce
Proprietà meccaniche
- elasticità: buona, ma inferiore a quella della lana
- tenacità (***): i valori sono superiori alla lana e vicini a quelli del cotone. La seta cruda è più tenace di quella sgommata, in quanto eliminando la sericina si perde circa un terzo di resistenza
- allungamento a rottura per la seta cruda è del 20%: inferiore a quella della lana e fibre sintetiche
- tenacità ed allungamento: l’assieme di queste due caratteristiche fanno si che la seta sia la fibra naturale più resistente che si conosca, caratteristica determinata anche dalla lunghezza della bavella
- gualcisce facilmente, però con il tempo le pieghe spariscono in gran parte spontaneamente
- resistenza all’usura: si misura sperimentalmente con flessioni ripetute della fibra. La seta ha una resistenza media all’usura, all’incirca tra quella della lana e quella del cotone
Proprietà termiche ed elettriche
- coinbenza termica: tessuto indicato sia per l’estate, in quanto può essere filato a titoli (****) molto fini, che consentono la traspirazione; sia per l’inverno, in quanto è molto isolante
- conduzione elettricità: non conduce elettricità e quando è asciutta si carica elettrostaticamente per sfregamento
- sudore: scarsa resistenza al sudore
- umidità: può assorbire l’umidità fino al 30% di acqua senza dare la sensazione di bagnato e rigonfiando in maniera modesta, è una fibra molto igroscopica
- irritazioni o allergie: generalmente non ne provoca. La seta caricata ha sulla superficie sali minerali che possono produrre dermatiti e sensazioni di prurito
Proprietà tintorie
La seta ha grande affinità per tutti i colori, la stampa sui tessuti prende così bene che il diritto e rovescio sono simili.
(*) acqua dolce: acqua di modesta “durezza”, cioè con un basso contenuto totale di ioni di calcio e magnesio ed eventuali metalli pesanti.
(**) mano della fibra: si intende la morbidezza e la flessibilità della fibra al tatto
(***) tenacità si misura in :
Tenacità assoluta: carico di rottura a trazione del filo in grammi
Tenacità relativa: carico di rottura a trazione del filo/ titolo = gr/denari
(****) titolo: il rapporto tra il peso corrispondente ad una determinata lunghezza del filo (L) ed è misurato in denari (den). Per la seta L=450m
Il baco da seta o Filugello è un insetto della specie dei Lepidotteri, la cui farfalla appartiene alla famiglia delle Bombycidae e la cui larva è il baco da seta.
Il baco da seta possiede alcune razze o varietà, che si differenziano a seconda dell’origine geografica e per le caratteristiche di larva e bozzolo (colore, forma, numero di mute, ecc).
Dal punto di vista commerciale, si distinguono le razze europee (quasi tutte italiane e francesi) da quelle orientali (cinesi e giapponesi) e da quelle cosiddette di levante (persiane, turche, ecc.). Le più pregiate sono le europee, le orientali hanno maggiore resistenza a certe malattie.
I bozzoli si distinguono per il colore, che può essere bianco, verdastro, giallo carnicino, giallo oro, roseo, ecc.; per la forma, che può essere ovale, più o meno allungata, tondeggiante, strozzata nel mezzo, ecc.; per la ricchezza di seta.
In Italia del nord l’allevamento dei bachi era un importante reddito di supporto all’economia agricola familiare. I gelsi erano molto diffusi, venivano piantati ai bordi dei campi, rendendo il paesaggio molto particolare; oggi sono diventati una “specie” protetta.
Nelle case dei contadini venivano adibite stanze con ampia aerazione, soprattutto nel solaio, adatte alla bachicoltura.
Storia
Sembra che l’allevamento del baco da seta si conoscesse già nel 3000 a.C. in Cina, impropriamente si fa risalire la sua nascita all’imperatrice cinese Xi Ling Shi (2697-2597 a.C.).
Per circa trenta secoli, la raccolta e la tessitura di questa fibra naturale, fu svolta in gran segreto dai cinesi, nonostante essi avessero stabilito un fiorente commercio con l’Occidente. La seta viaggiava, insieme ad altre merci, dalla Cina fino ai paesi mediterranei lungo la famosa ‘via della seta‘.
In Persia si producevano tessuti così pregevoli che quando Dario III si arrese ad Alessandro Magno (331 a.C.), il vincitore richiese come bottino di guerra tonnellate di preziosissima seta.
Solo nel 300 d.C. la bachicoltura fu scoperta dai giapponesi e quasi contemporaneamente dagli indiani.
Anche i Greci ed i Romani adoperavano la seta come genere di lusso, senza conoscerne l’origine.
La leggenda dice che nel 551 d.C. l’imperatore romano Giustiniano abbia inviato in Cina due monaci, i quali rubarono semi di gelso e uova di bachi da seta e li portarono segretamente a Bisanzio, nascosti nel cavo dei loro bastoni di bambù. Da Costantinopoli la seta si diffuse in Grecia, e di qui in Italia.
Con l’espansione del mondo islamico (circa IX secolo d.C.), la bachicultura arrivò in Sicilia e in Spagna.
Nel XII e XIII secolo l’Italia diventò il maggior centro di produzione serica dell’Occidente, conservando la supremazia fino al XVII secolo, quando nacquero importanti laboratori tessili nell’area intorno a Lione.
La massima produzione di seta in Italia, si raggiunse XVIII secolo, cominciò a calare nel periodo tra le due guerre per scomparire totalmente negli anni cinquanta.
Ciclo
Le tappe fondamentali della vita del baco sono 4:
– UOVO
Le uova vengono depositate dalla farfalla su dei sostegni, alla fine della primavera, in quantità di 400/500; quindi sono staccate dai supporti, lavate e messe in commercio col nome di semenza.
L’uovo ha colore bianco o giallo, forma lenticolare allungata, di diametro di circa 1 mm, peso che varia da 7/10 di milligrammo a meno di ½ milligrammo.
Nei primi giorni si ha un iniziale sviluppo dell’embrione a spese del liquido proteico contenuto nell’uovo, poi le semenze vengono conservate in appositi frigoriferi (a 2.5 °C) fino al mese di aprile, in modo che il baco non nasca prematuramente; questo lungo periodo di riposo è detto diapausa.
Rimosse le uova dal frigorifero, si sistemano in ambienti riscaldati a 24°C, umidità relativa e condizioni di luminosità adeguate, dopo circa 10 giorni d’incubazione, esse si schiudono e nascono le giovani larve.
– LARVA
Con la schiusa delle uova, inizia la fase larvale , i bachi appena nati sono scuri con lunghi peli, misurano circa 3 mm, pesano circa 0,5 mg.
Essi vengono adagiati su graticci orizzontali, detti “letto“, dove mangiano ininterrottamente, dal giorno alla notte, foglie di gelso e di conseguenza crescono rapidamente.
Questo straordinario sviluppo non è continuo, ma avviene attraverso 5 periodi di accrescimento attivo (età larvali) di 5-6 giorni, separati da 4-5 periodi di mute di 1 giorno. Durante ogni muta il baco resta immobile e cambia pelle: il rivestimento esterno del corpo si distacca e cade ed esce fuori il baco con l’involucro rinnovato. In tal modo la larva acquista la possibilità di aumentare il suo volume e può riprendere a nutrirsi. Raggiunto il massimo sviluppo, il baco è lungo sino a 9 cm e può pesare anche 4 gr.
Al termine della vita larvale, il baco si “purga“: elimina tutti i liquidi in eccesso e le feci che non possono essere contenute nel bozzolo.
La larva è matura, perché il corpo è diventato giallastro, traslucido e con la pelle tesa; essa “sale al bosco” che è composto da graticci o intelaiature in legno sovrapponibili, con fascetti di erica o di altri ramoscelli secchi, opportunamente disposti.
Il baco si arrampica su un rametto e vi si ancora con la parte terminale del corpo, dove fissa il filo di seta destinato a sostenere il suo futuro involucro; quindi attraverso movimenti ad otto della testa, dispone gli strati di seta che formeranno il bozzolo. In dialetto si fa distinzione tra cavalîr = baco da seta e bigàt = baco da seta che non fila, che non fa il bozzolo.
La larva produce due proteine:
- la fibroina in due ghiandole collocate parallele all’interno del corpo nella parte posteriore, che viene estrusa da due aperture situate ai lati della bocca: i seritteri
- la sericina in due piccole ghiandole collocate vicino alla bocca, che viene estrusa da un’altra piccola apertura vicino alla bocca
Le 2 bave di fibroina (80% in peso) ricoperte da sericina (20% circa), a contatto con l’aria si solidificano e restano incollate grazie alla sericina, che è una sostanza gommosa con proprietà adesive.
Il baco impiega 3-4 giorni, a 25°C circa, per preparare il bozzolo formato da circa 20-30 strati concentrici, costituiti da un unico filo di lunghezza variabile fra i 800 e i 1500 metri.
– CRISALIDE
Per la trasformazione da larva a crisalide sono necessari ancora 2-3 giorni. Questo stadio precede lo stadio di adulto.
– FARFALLA
Dopo altri 10-12 giorni, al mattino, dalla crisalide esce la bianca farfalla che fora il bozzolo utilizzando un liquido alcalino e le zampe, rendendo il filo di seta che lo compone inutilizzabile. L’insetto si accoppia immediatamente, depone le uova già nel pomeriggio e nella notte successiva; dopodiché si indebolisce gradualmente (poiché non si nutre) e muore dopo circa una settimana.
Tutto il ciclo dura circa 45 giorni.
In pratica, per la filatura della seta, bisogna impedire il deterioramento del bozzolo, prodotto dall’uscita delle farfalle; di conseguenza, gli allevatori uccidono le crisalidi in appositi essiccatoi.
Alcuni bozzoli vengono risparmiati per consentire la riproduzione del baco.
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Tra le attività che in passato hanno sorretto l’economia di Agerola vi è, come ben noto, quella dell’allevamento del baco e della produzione di seta. Sebbene iniziata già nel Tre-Quattrocento, questa attività diventa per noi importante nel secolo XVII, contribuendo a generare quella agiatezza, se non ricchezza, di cui ci danno testimonianza (come ho già scritto in questo blog) le diverse chiese agerolesi che sorsero o si arricchirono di costose opare d’arte nel corso del Seicento.
Su questo tema voglio ora proporvi una breve nota che ricavo essenzialmente dai dati che riporta il volume di Rosalba Ragosta “Napoli, città della seta : produzione e mercato in età moderna” ( Donzelli editore, 2009, 243 pp.)
Ad inizio ‘600 la seta importata a Napoli per avviarla alla locale produzione di drappi, proveniva in massima parte dalla Calabria. Ad esempio, nel periodo luglio 1607-luglio 1608, Napoli importò 635.714 libbre di seta (tra sana, ossia grezza, e filata), il 93% della quale dalla Calabria. Tra i fornitori minori, Agerola mostrava una produzione non trascurabile (210 libbre), ma inferiore a quelle di terre vicine come Positano (534 libbre), Praiano (335 libbre), Gragnano (512 libbre) e Lettere (240 libbre).
Le cose cambiarono decisamente nel corso del ‘600, quando Agerola vide aumentare molto la sua produzione di seta e, parallelamente, molti suoi figli si affermarono a Napoli come filatori o come mercanti di seta. Riguardo alla produzione, Agerola giunse a contare 40 filatoi da filare e torcere che producevano circa 20 000 libbre l’anno di seta. A questo dato ufficiale andrebbe però aggiunto ciò che si produceva “in nero”, della cui consistenza ci dà un idea il fatto che nell’anno 1669 l’Arrendatore dell’Arte della Seta di Napoli multò ben 30 persone che ad Agerola filavano senza essere muniti della prevista patente.
Circa gli operatori del settore che operavano in Napoli, la citata opera di Rosalba Ragosta, riportando dati raccolti presso l’Archivio di Stato di Napoli, ci informa che nel tardo ‘600 vi erano a Napoli 1786 mercanti di seta, circa 200 dei quali erano di altre parti d’Italia o stranieri, 1071 erano napoletani e 516 venivano da altrie parti del Regno di Napoli. Nell’ambito di quest’ultimo gruppo, ben 44 erano mercanti del nostro paese; così che Agerola si piazzava terza in classifica, dopo Cava (con 139 mercanti) e Sorrento (con 56). Anche in quanto a “maestri” (filatorari) del Regno, Agerola si piazzava terza (con 98 membri) e stavolta con scarti molto piccoli rispetto alla primeggiante città di Sorrento (115) e rispetto alla seconda classificata città Cava (106).
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Tra la seconda metà del Cinquecento e i primi del Seicento Napoli divenne una delle più popolose capitali d’Europa e una città nella quale il ritmo di vita della maggior parte della popolazione era scandito dal lavoro della seta. Brulicante di filatoi, botteghe di setaioli, “tinte”, tessitorie, fondaci di mercanti, di stranieri e di attività finanziarie e commerciali, la città cambiò in quel periodo il suo volto anche dal punto di vista urbanistico. Con oltre 250.000 abitanti, entrò a pieno titolo, accanto a Firenze, Genova, Venezia e Bologna, nel novero dei grandi centri italiani della seta. Frutto dell’analisi di numerosissime e in gran parte inesplorate fonti d’archivio e dell’elaborazione di una notevole mole di dati quantitativi, queste pagine tracciano le dinamiche di lungo periodo della storia dell’industria serica a Napoli dalle origini al XVIII secolo, ricostruendo le dimensioni dell’attività produttiva e il complesso di interessi sia pubblici che privati che si strutturarono intorno al “mondo” della seta, la cui lavorazione ebbe un peso rilevante nell’economia dell’intero Regno. L’individuazione dei fattori che determinarono prima la crescita e il successo e più tardi la crisi e il declino dell’industria, l’analisi della struttura e dell’evoluzione del mercato, gli esiti occupazionali e la ricostruzione dei quantitativi di seta lavorata nella città, nonché la produzione nel Regno di Napoli e le relative esportazioni, sono soltanto alcuni degli aspetti affrontati nel volume.
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Pare che la lavorazione della seta, in penisola sorrentina, risalga al Trecento, ma fu Carlo III che diede l’impulso maggiore ed incentivò l’industria manifatturiera in tutto il Reame di Napoli e di Sicilia, ove regnò dal 1734 al ‘69. Uno sviluppo ulteriore si ebbe al tempo di Ferdinando II di Borbone, re dal 1830 al ’59, quando a Carotto si producevano manufatti pregevoli, tra gli altri i berretti e le calze di seta di color rosso scarlatto molto richiesti dalle alte gerarchie ecclesiastiche, Vescovi e Cardinali. La seta pianese aveva raggiunto un livello qualitativo tanto elevato da richiamare anche un gran numero di clienti laici, esigenti e raffinati. Piano era al terzo posto per quantità prodotta nella graduatoria campana, dopo Nola e Napoli, ma la qualità era considerata la migliore del Regno.
La produzione della seta è collegata, notoriamente, alla coltura del gelso e all’allevamento del baco. Estese colture di gelso si trovavano in particolare nella parte collinare e restarono attive per quasi due secoli. L’allevamento avveniva prevalentemente nelle case contadine, con ambienti idonei, dove i bachi consumavano indisturbati le foglie di gelso, producendo un caratteristico rumore; in quelle case, spesso, c’erano anche dei telai. L’allevamento più importante si trovava a Petrulo. Oltre alla lavorazione familiare vi erano anche impianti a carattere industriale, nel territorio di Vico Equense, con una produzione di 500 pezze di stoffa di seta all’anno, ma a Carotto “…non vi era donna del Piano che non sapesse tessere”. La lavorazione, organizzata su più fasi, richiedeva competenze specifiche ed offriva alla popolazione opportunità di lavoro per la cardatura delle capisciole, la trattura, la tessitura, e la manifattura dei prodotti finali come calzette e zagarelle. Erano lavori destinati in prevalenza alle donne, che in quegli anni d’oro non avevano problemi a trovare lavoro! Agli inizi del sec. XIX, a Piano, oltre il 15% dei capitali era investito in sete e tinte e al catasto ben venticinque capifamiglia dichiaravano di lavorare alla filatura della seta.
La ditta più affermata era quella dei Fratelli Maresca. Aveva sede in Via Bagnulo, quasi di fronte all’attuale ditta Caffè Maresca, e verso la metà dell’Ottocento possedeva 60 telai in ferro modernissimi e occupava un eguale numero di operai. Nata come piccola azienda a conduzione familiare, raggiunse, al tempo di Ferdinando II, una dimensione industriale per la tessitura di lana e seta. Intorno a queste si articolavano altre attività che impegnavano un buon numero di operai: ricamatrici, cucitrici, stiratrici, addetti ai filatoi o all’annaspamento dei filati sui rocchetti. Dove i fratelli Maresca mostrarono particolari capacità fu nell’utilizzo della seta per le vesti ed i paramenti ecclesiastici. Il calendario liturgico chiedeva calze e guanti di vari colori, così pure l’appartenenza a un determinato livello della gerarchia ecclesiastica. I Maresca erano capaci di creare, coi loro telai, guanti che riproducevano perfettamente la forma delle mani dei clienti, con una precisione che mancava altrove. Anche il San Carlo di Napoli era tra i clienti della fabbrica carottese ed è passata alla storia la calzamaglia rosa per la celebre Adelina Patti, lavorata da Russo, un operaio che creò un prodotto tanto perfetto da incantare la diva. Negli anni della loro epopea, i Fratelli Maresca avevano anche un lussuoso negozio a Napoli, nel palazzo dell’Hotel Isotta e Genève, dove era in mostra il meglio della produzione di Via Bagnulo, il fior fiore dei capi, in particolare quelli della moda femminile.
Accanto a quella dei Fratelli Maresca, a Carotto operavano altre ditte, non meno importanti, come quella di Filippo Castellano di Via Santa Margherita, che, intorno al 1840, ancora produceva calze di seta a macchina, capaci di incantare e richiamare tanti inglesi che soggiornavano in costiera. Addirittura la Signora Marianna Starck inserì una visita al laboratorio di Filippo Castellano nel suo Itinerario turistico di Napoli e dintorni. Anche la ditta Castellano aveva un magazzino nella Capitale, in Via Monteoliveto n. 35, per la vendita di calze di seta, cotone e lana e altri lavori a maglia.
Ai tempi di Ferdinando II le principali ditte carottesi ebbero negozi anche a Ginevra e a Londra.
Con l’Unità d’Italia cominciarono le prime difficoltà per le nostre fabbriche. Ancora nel 1925 Gaetano Russo, ex capo operaio dei Maresca, riceveva riconoscimenti da papa Pio XI per la produzione destinata alle gerarchie ecclesiastiche, ma ben presto, di fronte alla crescente industrializzazione, le nostre, a carattere più artigianale, dovettero cessare ogni attività, sopraffatte dalle grandi industrie del Nord.
Fonte : PositanoNews.it