Questa sera alle ore 19, negli spazi di Art Tre verrà inaugurata una mostra di sue immagini in occasione del XXV anniversario della morte
Di Olga Chieffi
Alfonso Tafuri “l’orafo gentiluomo, alla pugna in difesa delle cose belle, dalla violenza delle cose che non lo sono”, come lo definisce Michele Amoruso, sarà omaggiato negli spazi di ArtTre, da stasera, alle ore 19, quando verrà inaugurata, sino al 20 ottobre, in occasione del XXV anniversario della sua morte, di una esposizione che lo vede in veste di fotografo. Una macchina fotografica di denuncia la sua, Minox gt 35, da lui utilizzata principalmente per documentare le manomissioni del paesaggio e gli abusivismi perpetrati nella città antica e in Costiera, che stavolta la vede madre di immagini raccolte e proposte da un altro magistrale occhio fotografico, quello di Corradino Pellecchia, che ritraggono alcuni personaggi popolari del centro storico, gente comune o persone legate a lui da autentica amicizia. Fotografia, quindi, come memoria storica e come simbolo di identità collettiva, grazie a Corradino Pellecchia ed Enzo Rosco: la loro identità è da sempre collettiva e fusa in modo indissolubile con la memoria della città. Le fotografie, perciò, sono storie di vita e richiamano passati personali. Sono anche luoghi della quotidianità, geograficamente ben localizzati, che l’occhio del fotografo riesce ad investire di una forte valenza simbolica. E’ difficile non provare interesse per la memoria, per il ricordo e per la sua operante continuità che le fotografie possono suscitare: ognuno di noi sente con molta intensità quanto il suo modo d’essere nel presente derivi da ciò che è appena accaduto e questo da ciò che ancora prima accadde. La fotografia, proprio perché instaura un rapporto complesso tra passato e presente, tra assenza e presenza, possiede un forte potere evocativo per chi la osserva, per chi la guarda e la interpreta. il punto di partenza di una storia, la scintilla bastante a mettere in moto la macchina dell’immaginazione narrativa. Don Alfonso resta per tutti colui che ha offerto alla città, la propria collezione privata di ceramiche negli ambienti di palazzo Mancuso, ai cui vani ha affidato l’invano compito di proteggere e conservare una vita di sacrifici, trattative, ceramiche e riggiole, memorie e fantasmi, reperti recuperati in seguito alle necessità impellenti di risanamento che sottopongono il sottosuolo delle aree urbane a continui interventi distruttivi. Oggi lo conosceremo stupito di quanto quello che succede dopo, attraverso lo scambio con la macchina fotografica, ritrovando una realtà arricchita, diversa, in direzione dell’oggetto, dell’immaginazione.
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