Questa sera, alle ore 18, il vernissage della mostra “Danze” nella sede del Fai di Via Portacatena
Di OLGA CHIEFFI
Nella danza il corpo occupa e crea lo spazio: l’azione diretta e sensibile prevale sulla narrazione, la prossimità è preferita alla distanza, la molteplicità all’unilateralità del punto di vista. I linguaggi delle diverse arti, musica, pittura danza, sono da sempre osmotici anche nei termini d’uso: scena, partitura, tono, colore, frase, fraseggio, improvvisazione, cluster, armonia, plasticità, sono “vocaboli” che popolano i discorsi di uditori musicali, teatrali, critici d’arte, visitatori di gallerie. Questa sera, alle ore 18, la sede della sezione salernitana del Fai, ospiterà le opere di Marco Di Lieto che dopo il debutto estivo al “Fes Show Room” nella sua Minori, si propone al pubblico salernitano con “Danze”, fruibile sino al 25 febbraio. Leggiamo nelle opere di Marco Di Lieto, una concentrazione sul lato tecnico della pittura, sulla padronanza d’un repertorio di registri fabrili che gli consente di tener sempre vivo un decantato rapporto con l’espressione. Se la pittura è costituzione fondante d’un concreto stato di realtà, la tecnica non ne è modalità astraibile, ma connaturata ragione formativa, garanzia stessa di possibilità. Dipingere è sognare e ricordare con le mani, cioè tramite una tecnica e, con questa, entrare nella “buia tana dell’indicibile”. Non il reale immediato, ma “l’anima” della realtà, attraverso la sua narrazione: questo è e vuole essere oggetto della mimesi. Ma come può cogliere un linguaggio pittorico questa sconosciuta dimensione del reale? Qual è la sintassi pittorica di Marco Di Lieto, funzionale allo scopo, se non quella che procede dall’attesa dell’inatteso, quella della “forma aperta” da dare al reale, quella che nasce dalla disponibilità assoluta alla cosa, quella che emerge dalla sospensione (nello stato dell’attesa) e dallo stupore che si genera al suo apparire e al suo accadere; è una sintassi che vuol cogliere, nelle cose e attraverso le cose, quello sguardo magico che esse sembrano lanciare, nell’atto di darsi all’occhio dell’artista: è il volere afferrare quell’esatto momento nel quale l’oggetto lancia una sorta di sguardo dionisiaco, con cui crea e “costituisce” lo spazio dei significati, consentendo la cattura del “senso”, nella sua realtà. La sua urgenza di sperimentare (Marco è allievo dell’Accademia napoletana di Belle Arti), lo tiene lontano da modelli correnti, fino a distillare una propria “étrange maîtrise”, calandosi in un’esperienza che sia attuazione cosciente d’un reale non può consentirsi facoltatività, traduzioni, codificazioni eteronome: l’atto di pittura è, non più metaforícamente, crescita corporea d’immagine. I dipinti in mostra riprendono il loro intessersi ambiguo e proliferante, che cresce in forma, ritmicamente, struggendosi in accordi segreti, non privi ora di taluni accenti di captazione estetica. Il segno, inciso dipinto, trova fluenze più sensuosamente eccitate; le materie, nell’abbandono a lievitazioni cromatiche più pienamente mature e intense, decantano i grumi colorati in modulazioni d’emotività più vibrante e sottile, attraverso la tecnica del dropping e degli acrilici su smalto, come le guizzanti alici di Cetara. Composizioni, simmetrie, variazioni per evocare avvenimenti di forme e linee e colori: essi stessi, in questa pittura, fatti cose, consistenze, presenze vere, epifanie di realtà in uno spazio reale. Più che un tema, “Danze”, questo diventa “le motif” per eccellenza: ma motivo dell’anima, ormai, così definitivamente introvertito e capace di piena espressione – al pari del variare inventivo delle composizioni non descrittive – da potersi consentire più paniche, e insieme emotivamente fluenti, incursioni nell’ambiguo tra visione e natura percepita.
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