Il prof Luigi Russo, viaggiatore per passione, racconta nella sede dell’UNITRE di Piano, il suo…
Il prof Luigi Russo, viaggiatore per passione, racconta nella sede dell’UNITRE di Piano, il suo ultimo lungo viaggio in Nepal. Con tra le mani una tazza di tè bollente di quelle zone, un folto pubblico di soci, ha goduto di una serie di immagini e video e racconti e impressioni che Luigi Russo ha presentato in maniera riflessiva, in un popolo in cui nulla è superfluo e tutto ridotto all’essenziale.
L’ispirazione a questo viaggio, a Luigi Russo, gli è stata data dallo scritto di Enrico Deaglio
Destinazione paradiso, formidabili quegli anni
L’Iran dell’oppio libero. La Kabul delle minigonne. L’India dei santoni. E alla fine Kathmandu. In un libro il “trip” di un’intera generazione
di Enrico Deaglio
Era davvero il viaggio della vita. Impossibile dire quanti, dall’Italia, partirono e quanti arrivarono alla meta: migliaia sicuramente, forse di più. Non era come andare a Londra, a New York o a Marrakech. Era un viaggio di mesi, da cui si tornava smagriti, diversi, cambiati. Più lenti, in genere. Erano altri tempi, più o meno mezzo secolo fa, nella seconda metà del Novecento. La meta era lontana: l’India, il Nepal, l’Afghanistan. Le condizioni del viaggio erano disagevoli: niente aerei, carte di credito, cellulari, bed and breakfast, capi tecnici; piuttosto (pochi) traveler’s cheque, scassati uffici del telegrafo, fermo posta, ostelli e tutte le malattie gastrointestinali in agguato. Le utilitarie Fiat non erano attrezzate, i più fortunati viaggiavano sul pulmino Volkswagen, se no erano bus, treni, autostop, con tanto di appuntamenti in caravanserragli.
Fu davvero una grande migrazione, ricordata da un prezioso Baedeker di ricordi, Viaggio all’Eden. Da Milano a Kathmandu (Editori Laterza, pp. 138, euro 16) di Emanuele Giordana; lui – oggi giornalista specializzato in Paesi asiatici – fu uno dei pionieri. Non era per lavoro, non era per cercare fortuna, cose che gli italiani avevano nel sangue da sempre. Non era neppure il Grand Tour che i poeti inglesi dell’Ottocento, specie se di deboli polmoni, compivano nell’Italia degli archi e delle rovine per meditare sull’effimera gioventù. Fu piuttosto un viaggio interiore, individuale e collettivo, alla ricerca di spiritualità, meditazione, allargamento della conoscenza e, soprattutto, una reazione alla vita materialistica, competitiva e violenta, che si conduceva in occidente. Hashish e oppio furono i necessari condimenti; più dell’Lsd, considerato troppo americano e troppo chimico.
Il libro di Giordana è rievocativo, preciso e nostalgico nella descrizione della mappa della grande migrazione. Da Trieste verso la Jugoslavia allora titina e unita, a scoprire quanto i coetanei comunisti ci tenessero a un paio di jeans; poi Salonicco, dove – se a corto di soldi – si poteva donare sangue; poi Istanbul a marcare l’inizio dell’Oriente, e di qui l’Iran dello Scià, con il suo oppio legalizzato, fino al campeggio di Mashhad, porta dell’Afghanistan allora accogliente, con la lunga sosta in Chicken Street di Kabul – all’epoca città libera, aperta, con dischi di jazz e cinema internazionali. Poi la lunga deviazione in India, con le tappe obbligate a Delhi, Benares e Goa, e poi l’Eden finale nella capitale del Nepal, Khatmandu, nella Freak Street delle fumerie d’oppio legali, all’ombra del favoloso palazzo reale e circondati da gruppi di opposizione maoisti. L’Italia, naturalmente, non era isolata; la grande migrazione verso l’Eden fu un fenomeno di tutto l’Occidente, iniziato con la decolonizzazione dell’India e la grande curiosità che suscitarono i metodi non violenti con cui Gandhi ebbe ragione dell’imperialismo inglese. Il reverendo Martin Luther King, per esempio, si ispirò a lui quando lanciò la sua campagna per i diritti civili nel sud degli Usa e il metodo della «resistenza passiva non violenta», mentre nella California si guardava per la prima volta all’Oriente da cui veniva anche qualcosa di diverso da Pearl Harbor.
Ma fu, per ironia della storia, proprio l’impero inglese a lanciare la nuova India sul mercato. A quindici anni dalla perdita della loro colonia, quattro ragazzi di Liverpool rivoluzionarono la musica e diventarono i pionieri di una nuova cultura. Nel 1968 – quando erano «più popolari di Gesù Cristo» – decisero un clamoroso trasferimento in India per seguire gli insegnamenti di Maharishi Mahesh Yogi, maestro di meditazione trascendentale. Partirono in un gruppo di 60 e si sistemarono per sei settimane alle pendici dell’Himalaya. Non tutto andò bene, nel rapporto tra il guru e i musicisti, ma i Beatles ne uscirono con una cinquantina di nuove canzoni (e George Harrison portò in Occidente i suoni del sitar), l’idea della meditazione, così come la pratica dello yoga, la sessualità tantrica, la cucina vegetariana, le camicie senza collo, il kajal e i gilet di cotone spesso, conquistando milioni di persone. Da lì partì la moda dell’Hippie Trail, l’on the road di iniziazione verso le profondità dello spirito.
Gli italiani, evidentemente, ne avevano più bisogno di altri, perché il fenomeno fu massiccio. Emanuele Giordana, nel libro – dedicato appunto a dieci suoi compagni di avventura, tutti milanesissimi e pragmatici – identifica i viaggiatori tra gli studenti o i giovani laureati di sinistra, un po’ stufi della piega violenta e asfittica che avevano preso gli avvenimenti politici; in realtà il fenomeno prese piede anche tra i giovani operai che dalla crisi erano condannati a lunghi periodi di cassa integrazione (prendevano il 70 per cento del salario, ma era vietato trovarsi un altro lavoro: perché non andarsene a Kathmandu, allora? E spedivano cartoline beffarde ai compagni che faticavano alla catena) e contagiò le persone più impensate.
La signorina Sonia Maino, di Orbassano in provincia di Torino, famiglia di operai edili, incontrò un giovane indiano durante un corso estivo di inglese a Cambridge e lo sposò nel 1968. Si trasferì a New Delhi, si convertì all’induismo e divenne Sonia Gandhi. Soccorse la suocera Indira morente, pianse l’assassinio del marito Rajiv e divenne la presidente del Partito del Congresso. Edoardo Agnelli, primogenito dell’avvocato Gianni, destinato a ereditare la Fiat si appassionò all’Islam più mistico, percorse per anni le valli dell’Afghanistan, sponsorizzò la guerra di Massoud, si convertì all’Islam sciita direttamente benedetto dall’ayatollah Khomeyni. Da qui la leggenda iraniana che dice che Edoardo promise a Khomeyni le azioni della società e il fatto che gli iraniani non credono al suo suicidio. Antonio Craxi, il fratello di Bettino, divenne l’ambasciatore del guru indiano Sathya Sai Baba, Marco Pannella ispirò la sua azione politica al satyagraha (il digiuno di resistenza) del Mahatma Gandhi, Roberto Vecchioni scrisse Samarcanda, l’architetto romano Carlo Buldrini, che aveva fatto “il viaggio” in India, convinto di tornare presto, si trovò a reggere per trent’anni l’istituto italiano di cultura a Delhi e scoprì, lo ha detto lei, le doti letterarie di Arundhati Roy.
L’ultima grande migrazione avvenne all’inizio degli anni Ottanta, quando una cinquantina di professionisti e intellettuali milanesi, guidati da Andrea Valcarenghi e Mauro Rostagno – due leader del Sessantotto – che avevano cominciato a vestirsi di arancione e a portare il “mala” (una collana) con la fotografia del loro leader spirituale, lasciarono la metropoli per diventare discepoli del Bhagwan Rajneesh nel suo ashram di Pune. Il Bhagwan era un filosofo piuttosto complesso: libertario carismatico e grande avversario del cristianesimo, paradossalmente consumista (possedeva 93 Rolls-Royce e il suo motto era: «Jesus saves, Bhagwan spends»), ambiva a liberare l’Occidente dalla sua ipocrisia. Ebbe un successo colossale, emigrò lui stesso in America dove fondò una città in Oregon che venne attaccata dalle locali milizie fasciste e morì, con il nome di Osho, lasciando un’eredità di discorsi e di seguaci. Quello degli arancioni, all’inizio degli anni Ottanta, è stato probabilmente l’ultimo viaggio verso l’Eden. Il mondo della beatitudine, dell’afgano nero, delle pastiglie di morfina sbriciolate, della meditazione, la città ospitale di Kabul con le ragazze in minigonna e la gita ai Buddha di Bamiyan, da tempo non esiste più; sostituito dal turismo di massa – dove c’è – e dalle guerre, che hanno distrutto, o sfigurato, molte delle città in cui si faceva tappa. E così, gli unici europei che oggi, per avventura e per ricerca di sé stessi, partono per l’Oriente sono purtroppo i foreign fighters che cercano il jihad. Partono, per disperazione, da piccole città di provincia.
(7 luglio 2017)
Fonte : PositanoNews.it