L’Archivio di Stato di Napoli, gli Archivi Generali della Grecia e la Società di Studi…
L’inaugurazione delle tre Mostre Parallele, che si terrà il 15 marzo 2021, alle ore 11.00, sarà trasmessa in diretta streaming nei siti dei due Archivi e della Società di Studi Ciprioti e attraverso la pagina fb dedicata.
Organizzazione: Candida Carrino, Amalia Pappas, Ioannis Eliades
Coordinamento: Jannis Korinthios
Εγκαίνια Παράλληλων Εκθέσεων, 15 Μαρτίου 2021, 11.00 π.μ.:
ASNa, Sala Filangieri, Piazzetta del Grande Archivio 5, 80138 NAPOLI
Γενικά Αρχεία του Κράτους, Δάφνης 61, Ψυχικό 154 52, Athens GREECE
Εταιρεία Κυπριακών Σπουδών, Πλατεία Αρχιεπισκόπου Κυπριανού, Λευκωσία, CYPRUS
Τα εγκαίνια των τριων Παράλληλων Εκθέσεων θα μεταδοθούν ζωντανά μέσω streaming, fb και ιστοσελίδων των δυο Αρχείων και της Εταιρείας Κυπριακών Σπουδών
Συνδιοργάνωση: Αμαλία Παππά, Candida Carrino, Ιωάννης Ηλιάδης
Συντονισμός Γιάννης Κορίνθιος
Fervono i preparativi all’Archivio di Stato di Napoli, ai General State Archives (Atene-Grecia) e alla Società degli Studi Ciprioti (Nicosia – Cipro), per l’allestimento della Mostra Parallela NAPOLI E IL RISORGIMENTO GRECO.
Francesco Guida
Barlumi di filellenismo. La Grecia, l’Italia e la crisi d’Oriente
È ben noto che il filellenismo in Italia1 non si esaurì con la conquista
dell’indipendenza del popolo greco (o, meglio, di una sua parte decisamente
minore) e la nascita del Regno di Grecia. Esso proseguì per l’intero XIX
secolo essendo ancora vivo nel primo Novecento. Senza essere molto popolare nella storiografia, tale tema tuttavia ha trovato degli studiosi che hanno
chiarito molti suoi aspetti2. Vari gli episodi che caratterizzarono quei decenni:
il momento più alto forse coincise con l’insurrezione a Creta del 1866-67
che vide una reiterata spedizione di garibaldina sull’isola mediterranea3.
Pertanto la crisi d’Oriente non trovò l’opinione pubblica e il mondo
politico in Italia ignari della questione più specificamente greca, né a
essa insensibili. I responsabili della politica italiana e la diplomazia la
considerarono tra gli argomenti di maggiore interesse, peraltro legandola
alla preminente questione dell’Albania e non solo per motivi geografici.
Tutto questo si coglie molto bene nello scambio epistolare tra Roma e le
Legazioni e le sedi consolari italiane coinvolte. In tali ambienti ufficiali non mancarono dei sentimenti filellenici, ma ovviamente non potevano
prevalere sulle considerazioni più ‘ciniche’ relative agli interessi dello Stato
italiano in campo politico, strategico ed economico4.
Per gli ambienti non ufficiali era più facile immaginare e proporsi
obiettivi più arditi, ma forse non conseguibili senza difficoltà. Anche essi
però dirottarono il loro impegno in altra direzione, cioè verso la Bosnia
e l’Erzegovina dove era in atto la conosciuta e importante rivolta dalla
primavera del 1875. Il movimento di volontari della più varia estrazione e
affiliazione verso quelle terre è poco noto5 e quindi non tutti sanno che al
suo interno qualcuno volle ricordare anche la Grecia e le aspirazioni dei suoi
patrioti. Fu costituita, infatti, una Lega per la liberazione e l’affratellamento
della penisola slavo-ellenica i cui ispiratori immaginavano che le motivazioni
che avevano mosso gli insorti della Bosnia e dell’Erzegovina, e di rincalzo
i governi serbo e montenegrino (scesi in guerra contro la Potenza altosovrana, l’Impero ottomano) non entrassero in conflitto con quelle dei
patrioti ellenici. Al di là degli esiti assolutamente deludenti di quella Lega6,
la documentazione poco sopra ricordata rivela con nettezza che non era
affatto semplice conciliare le agitazioni del mondo slavo, nella sua varietà, e
gli obiettivi del governo di Atene e del movimento nazionale ellenico.
L’operato del governo e della diplomazia italiani non stupisce, poiché non diverso fu l’atteggiamento delle altre Potenze. Molto più dell’Italia,
nella crisi d’Oriente furono altri gli Stati protagonisti, principalmente
Russia e Inghilterra, oltre ovviamente all’Impero ottomano. San Pietroburgo
e Londra avevano dalla loro una notevole forza militare, gli strumenti
dell’economia e della finanza, più in generale una significativa influenza
politica e diplomatica. Inoltre rappresentavano interessi di varia natura,
ma comunque ingenti. Proprio al termine della crisi d’Oriente, cioè nel
1878, Londra legò a sé la Grecia più di quanto non fosse già, dando
assenso a un accordo di ristrutturazione del vecchio debito pubblico con i
creditori, di cui le finanze dello Stato greco (e quindi politicamente anche
il governo di Atene) avevano assoluto bisogno, pendendo il rischio della
bancarotta. Sicché lo Stato greco poté tornare a chiedere prestiti sul mercato
internazionale (sei tra il 1879 e il 1893)7. È stato scritto, peraltro, che proprio
con la crisi d’Oriente a Londra prevalse l’idea di porre sotto controllo la via
del Levante: di fatto nel 1875 la società del canale di Suez fu posta in mani
britanniche. Si trattò dell’acquisto di azioni per salvare dalla bancarotta –
anche in questo caso – il khedivè d’Egitto Ismail pascià, il quale di sangue
albanese (discendeva da Mehmet Alì e Ibrahim pascià) aveva aspirazioni a
fare dell’Egitto un Paese europeo. Pochi anni dopo, nel 1878, «l’entrata di
Cipro nella sfera d’influenza di Londra segnò il momento a partire dal quale
Disraeli si convinse che presto o tardi la Palestina e la Siria sarebbero entrate
nell’orbita britannica»8. Si noti che l’acquisizione della Palestina significava
garantire una delle due coste del canale di Suez.
In concorrenza con la Russia, è noto, alla Penisola balcanica erano
molto interessate la politica e la diplomazia dell’Austria-Ungheria, con
andamento che si potrebbe definire alternato. Nel senso dell’accordo,
sostanzialmente spartitorio, tra i due imperi limitrofi a danno dell’Impero
ottomano, andarono gli accordi di Reichstadt (Zákupy, 8 luglio 1876)9
e di Budapest (15 gennaio 1877)10 e, alla conclusione della lunga crisi
d’Oriente, le decisioni assunte al Congresso di Berlino. Viceversa i segnali
di mobilitazione dell’esercito austro-ungarico e le contemporanee proteste
e mosse diplomatiche dei primi mesi del 1878 sembrarono ispirarsi alla
minaccia e al richiamo al rispetto dei patti da parte di Vienna nei confronti
di San Pietroburgo. Persino la Francia, nonostante gli strascichi della pesante
sconfitta subita dalla Germania nel 1870-71, fu attivamente presente nello
svolgimento pluriennale della crisi internazionale, né il punto di vista del
governo di Parigi fu tenuto in non cale dagli altri Gabinetti. Naturalmente
molto di più contò l’opinione del governo germanico che rappresentava la
Potenza maggiormente in ascesa nel continente. In modo quasi simbolico la
crisi d’Oriente, divenuta fomite di contrasti tra le Potenze, trovò a Berlino
il suo onesto sensale. Bismarck era deciso a salvaguardare la pax germanica,
mantenendo buoni rapporti con Vienna, ma anche con San Pietroburgo.
Non riuscì però a non attirarsi l’antipatia dei panslavisti russi.
In tale contesto l’Italia continuava a essere l’ultima delle Grandi Potenze
e non poté che avere un ruolo non primario. Lo capì pure il grande pubblico
quando Luigi Corti tornò dal Congresso di Berlino vantando di avere «le
mani nette»11. Probabilmente (la documentazione sembra confermarlo)
i responsabili della politica italiana erano consci di tale condizione di
inferiorità. Ciò era vero per Emilio Visconti Venosta, ministro degli Esteri
nell’ultimo esecutivo della Destra capeggiato da Marco Minghetti (10
luglio 1873-20 novembre 1876), ma anche per l’ex mazziniano e figlio di
contadini, divenuto professore universitario, politico e diplomatico, Luigi
Amedeo Melegari, e per Benedetto Cairoli, il ricordato Corti e lo stesso
Agostino Depretis. Tutti quegli uomini si dimostrarono molto prudenti,
talora prendendo le distanze da loro precedenti esperienze politiche.
Dalla Consulta i consigli di prudenza, anche per evitare qualsiasi crisi che
sfociasse nell’uso delle armi, furono rivolti a più governi. Non solo si cercò
costantemente di indurre Atene a non entrare in campo anche quando lo
erano i Principati di Serbia e Montenegro, e a non spingere le popolazioni
greche dell’Impero ottomano a sollevarsi, come avevano fatto le popolazioni
slave di Bosnia-Erzegovina e Bulgaria12; ma si suggerì massima prudenza
anche a Istanbul. Melegari, nei giorni in cui si palesò il fallimento della
Conferenza di Costantinopoli, tramite il ministro plenipotenziario Luigi
Corti, faceva presente al gran visir Midhat pascià (l’uomo noto per aver
voluto la Costituzione emanata durante la Conferenza a mo’ di colpo di
teatro)13 che soltanto la «saviezza della Sublime Porta […] può preservare sé
e l’Europa da una eventualità che avrebbe per prima conseguenza diretta un
principio di spartizione territoriale, fatto a sue spese, e a beneficio di due fra
i tre imperi, sotto gli auspici del terzo». E precisava: «Le Potenze occidentali
non faranno assolutamente nulla, e nulla potranno fare per attenuare i
corollarii [sic!] di una situazione che i nostri sforzi non avranno riuscito a
scongiurare»14. La guerra, come è noto ci fu e ad essa seguì una sostanziale
spartizione territoriale di province ottomane, ma in forma un po’ diversa da
quelle immaginate da Melegari e non senza che le Potenze occidentali (Gran
Bretagna in primis) giocassero un proprio ruolo.
Quanto alla Grecia, sin da quello stesso mese di gennaio 1877,
Alexandros Kontostavlos, ministro degli Esteri del governo condotto (per
la sesta e non ultima volta!) da Koumoundouros, parlando con il ministro
plenipotenziario Carlo Alberto Maffei di Boglio, non poteva accettare «che
le condizioni dei greci nella Tessaglia e nella Macedonia presentino un
sostanziale divario con quelle delle provincie slave». Fu questo il costante
leit motiv anche degli uomini politici che si successero alla guida della
politica estera del Regno di Grecia che continuarono a vantare il «contegno
leale e saggio mantenuto dal governo ellenico» nel tenersi fuori dalla crisi
e nell’indurre alla calma le popolazioni elleniche dell’Impero ottomano,
mettendo a grave rischio la propria popolarità15. Naturalmente il paragone
era con le insurrezioni dei popoli slavi soggetti al sultano e con la scelta
dei governi serbo e montenegrino di scendere in guerra contro la Potenza
alto-sovrana. Tuttavia non mancavano riferimenti alla condotta crudele
e opprimente del potere ottomano e in particolare delle truppe irregolari
(circassi e başi bozuk), oppure di elementi musulmani locali fanatizzati. Ad
esempio ne parlava un rapporto del maggio 1876 del console italiano a Corfù
che faceva riferimento a un gravissimo fatto accaduto a Salonicco, in margine
alla conversione di una ragazza cristiana alla religione musulmana, contestata
dalla famiglia e dagli ambienti cristiani. Una folla inferocita di musulmani era
giunta a uccidere a colpi di spranga i consoli tedesco e statunitense. Il console
italiano notava che l’opinione pubblica corfiota non addebitava alla Sublime
Porta la responsabilità di quanto avvenuto, però «è evidente che quest’atto
di barbara intolleranza, servirà a provare una volta di più come sia, nel
fatto, difficile per non dire impossibile, la trasformazione tanto preconizzata
dell’Impero Turco in un Paese degno della civiltà Europea»16. Nello stesso
senso andava la propaganda russa proprio al tempo della guerra del 1877-
1878: la rivista Rodina pubblicò un’immagine che voleva rappresentare la
testa di un turco e spiegare perché «non vive né pensa come un europeo! A
questa domanda psicologica si è risposto utilizzando il sistema frenologico di
Gall», facendo ricorso a tutti gli stereotipi per dimostrare la propensione dei
turchi alla violenza e alla impermeabilità alla civilizzazione17.
L’uomo simbolo del cambio avvenuto nel 1876 nella politica italiana,
Depretis, insistette su quello che sembra essere stato il punto di maggiore
interesse italiano, cioè l’Epiro, posto alla frontiera tra la Grecia e l’Albania
ottomana. La questione dell’Epiro, in effetti, divenne in quegli anni molto
sentita dall’opinione pubblica italiana con la pubblicazione di alcuni
opuscoli e articoli. E, in margine ad essa, il diffuso filellenismo si trovò a
polemizzare con punti di vista diversi che, in modo non del tutto preciso,
si potrebbe definire filo-albanesi. Una buona testimonianza furono gli
opuscoli La questione dell’Epiro di Marco Antonio Canini18 – su posizioni
sufficientemente equilibrata fra le parti nonostante l’ellenofilia dell’autore –
e Gli albanesi e l’Epiro, testo anonimo di orientamento filogreco stampato
a Roma nello stesso anno19. Le opinioni, naturalmente, erano diverse, ma
il governo italiano soprattutto non desiderava che quella regione storica
venisse spartita, con conseguente inevitabile insurrezione dell’elemento
albanese musulmano, magari aprendo la strada a un intervento dell’AustriaUngheria a tutto danno dell’Italia. Quindi si assistette a iniziative tra loro
molto contraddittorie.
Nel marzo 1878, mentre lo zar imponeva una pace cartaginese al sultano
a San Stefano (o Yeşilköy), sobborgo di Costantinopoli, il filellenismo
italiano trovava una sua radicale e insieme effimera espressione con una
piccola (nei numeri) spedizione sulle coste albanesi, usando la prospiciente
Corfù come base di partenza. La spedizione finì nel peggiore dei modi, senza
ottenere nessun successo, neanche di valore simbolico, e dei due italiani
che la dirigevano, uno perse la vita. Era Luigi De Conturbia, discendente
da un antico filelleno degli anni Venti, né il suo compagno di battaglie
Luigi Pennazzi poté riportarne a casa il corpo20. Era il punto di arrivo di
un’agitazione seguita con attenzione negli anni precedenti dagli organi di
polizia italiani, pronti a segnalare al ministero dell’Interno come a quello
degli Esteri i singoli che sembravano preparare azioni volte a sostenere la
causa ellenica in territori ancora sotto sovranità ottomana21. Tra tanti nomi
forse è giusto fare quello di Leone Olivero, il quale fu collaboratore di un
noto patriota greco, Leonìdas Vúlgaris, uomo dalla vita tumultuosa e più
che interessante: sembra averlo rappresentato in Serbia, poiché Vúlgaris
era tra i pochi greci disposto a collaborare con gli slavi (il governo russo gli
fece avere 10.000 fucili per armare i greci soggetti al sultano), non essendo
estraneo anche alla proclamazione di un governo macedone autonomo, di
cui si dirà più avanti22. La spedizione Pennazzi-De Conturbia fu il topolino
partorito dalla montagna e non incise molto sulle decisioni delle Potenze23.
Non vi è da stupirsi che le vicende attinenti Grecia e Albania pure in
seguito restassero all’ordine del giorno dei governi italiani, ma anche all’attenzione di una parte della pubblica opinione. Infatti, la crisi, anche dopo la
cessazione del conflitto militare russo-turco, continuò per quanto riguardava
quello specifico scacchiere: il 2 febbraio 1878 una consistente forza armata
greca (25.000 soldati, con 24 cannoni, e 400 cavalleggeri) era penetrata in
terra ottomana suscitando la reazione delle Potenze. L’incaricato d’affari greco
a Roma, Paparigopoulos, consegnò personalmente la notizia a Depretis:
Le gouvernement royal a résolu d’occuper provisoirement, avec
son armée, les provinces grecques de Turquie. Cette mesure,
qui paraitrait hasardée, n’est, au fond, ni injuste, ni insolite.
La Grèce ne veut pas faire la guerre à la Turquie, mais garantir
sa propre sécurité et contribuer à l’amélioration définitive des
conditions des provinces grecques de l’empire ottoman. Cette
mesure ne nous est pas suggérée par des vues intéressées, ni par
des vues ou tendances subversives; mais par le désir de l’ordre et
par une vue d’humanité24.
Tale iniziativa militare era giustificata, secondo la diplomazia greca,
per le rivolte scoppiate in Tessaglia e a Creta, per il fatto che il governo
ottomano avrebbe usato truppe irregolari capaci dei peggiori eccessi e per la
vasta e pericolosa agitazione che quelle notizie avevano causato all’interno
del Regno di Grecia. Il 5 febbraio Depretis25, sollecitato da Istanbul (non
meno degli altri governi), consigliava moderazione ad Atene, attraverso il
ministro plenipotenziario Maffei. Egli precisava: «Noi vorremmo, bensì,
essere in grado di risparmiare alle città aperte e indifese della Grecia i danni
che si debbono oramai considerare come imminenti dopoché si annuncia
già partita verso l’Egeo la flotta ottomana»26. Quello stesso giorno il ministro
degli Esteri Theodoros Deliyannis (da pochi giorni subentrato a Charilaos
Trikoupis)27 firmò una comunicazione rassicurante: «le gouvernement du
Roi vient de donner l’ordre aux troupes qui ont franchi la frontière de
s’arrêter dans les endroits où elles se seraient trouvées au moment du reçu
de l’ordre». Tale ordine voleva confermare le buone intenzioni del governo
ellenico, ma solo l’8 febbraio fu dato l’ulteriore ordine ai contingenti militari
di ripassare la frontiera. Questo nuovo atto di Atene era dettato dalla
fiducia nelle Potenze, impegnatesi a dare soddisfazione alle aspirazioni delle
popolazioni greche ancora sottomesse al sultano. In particolare si chiedeva
che al congresso della pace (si osservi che ancora non era stata neanche
siglata la pace di San Stefano) si ammettesse chi potesse rappresentare quelle
aspirazioni, cioè un esponente del governo greco (anche se la richiesta era
non del tutto esplicita)28.
Prima ancora e più di Roma, era stato il governo britannico a operare
per impedire che l’esercito greco entrasse effettivamente in campo, essendo
preoccupato del crollo dell’Impero ottomano. Londra, come sempre, poteva
usare anche lo strumento finanziario per convincere Atene a scegliere
ancora una volta una linea politica moderata, poiché aveva bisogno assoluto
di impedire che lo Stato ellenico cadesse nella bancarotta, ma di ciò si è
già detto supra. Il governo italiano aveva secondato con convinzione tale
linea perché non gradiva il crearsi improvviso di un vuoto nei Balcani e
nel Vicino Oriente; non si sentiva pronto per giocare un ruolo decisivo in
tale evenienza e in un’area cui una Potenza mediterranea era naturalmente
interessata; soprattutto temeva che il nuovo quadro sarebbe stato dominato
da una o più Potenze e non tenuto sotto controllo dal concerto di esse; in
particolare per i governanti italiani era assolutamente da ostacolare una
discesa dell’Austria-Ungheria verso l’Albania e Salonicco.
Naturalmente la carta geopolitica disegnata con la pace di San Stefano
ai politici e patrioti greci sembrò negare la realizzazione delle proprie
aspirazioni nazionali e consegnare a un grande Stato slavo, la nascente
Bulgaria, l’egemonia sui Balcani. La strada di Costantinopoli, sognata
futura capitale, sarebbe stata sbarrata e l’ellenismo avrebbe fatto pesanti passi
indietro nelle regioni assegnate allo Stato bulgaro: «Large numbers of the
downtrodden peasantry of Macedonia and Thrace, hitherto clearly attached
to Hellenism, were likely to opt to become Bulgarians rather than remain
under the Ottoman rule»29. A Istanbul diversi comitati greci rappresentanti
delle province della Tracia e della Macedonia sostennero la causa greca,
chiedendo una specifica autonomia per la Macedonia. Non mancarono di
muoversi altri circoli in Atene, nonché i greci della diaspora nelle maggiori
capitali europee, Roma inclusa. La battaglia si incentrò spesso sulla validità
delle carte etnografiche (quella di Heinrich Kiepert contro quella di Edward
Stanford)30. Nonostante il principale negoziatore di parte russa, il generale
Ignat’ev, fosse propenso alla cessione di Epiro e Tessaglia dall’Impero
ottomano al regno di Grecia, lo zar e il governo russo non insistettero
su questa richiesta che avrebbe significato l’espulsione quasi totale della
Potenza turca dai Balcani, non desiderata a Vienna e a Londra, poiché
tutta a vantaggio della Russia. Sicché la pace di San Stefano nulla previde
come acquisizioni territoriali per la Grecia, ma solo regimi di garanzia per
le popolazioni cristiane nelle singole province. Sia in quel momento, sia
nei mesi successivi che videro un aspro confronto tra le diplomazie delle
Potenze, sulle proposte radicali del generale panslavista prevalse la linea più
prudente e tendente al compromesso del ministro degli Esteri Gorčakov che
fu fatta propria anche dallo zar Alessandro II e, con lo sguardo dei posteri,
si può affermare che ciò orientò le decisioni del Congresso di Berlino e, in
definitiva, mutò alquanto la storia del Sud-est europeo. Ignat’ev non riuscì
neppure a ottenere dal gran visir Mehmet Safvet un gesto che poteva essere
fortemente simbolico, come ci confermano gli eventi correnti dell’odierna
Turchia di Erdoğan: la restituzione di Santa Sofia al culto cristiano
ortodosso31.
In una situazione ormai davvero precaria per le aspirazioni greche, somma
importanza ebbe il fatto che Londra e Vienna non gradissero affatto quanto
imposto dallo zar al sultano, impegnandosi a rivedere tutte le deliberazioni
di San Stefano considerate non accettabili o pericolose. È più che noto
come nel giro di pochi mesi la vittoria militare russa fu trasformata quasi
in una sconfitta diplomatica, sancita dal congresso di Berlino, soprattutto
con l’assegnazione della Bosnia-Erzegovina in amministrazione all’AustriaUngheria e con lo smembramento della Grande Bulgaria. I governi inglese
e austro-ungarico «hit upon the possibility of supporting Hellenism as a
counterpoise to Russian expansion»32. La diplomazia britannica si spinse
a suggerire a quella italiana la costituzione di una Lega mediterranea per
frenare una soluzione ‘russa’ della questione degli Stretti, ma senza successo
e la sostituzione agli Affari Esteri di lord Derby con lord Salisbury marcò
ancor meglio l’intenzione di contenere l’espansionismo russo, anche
attraverso la promozione dell’Ellenismo33. La diplomazia inglese ottenne
anche una relativa pacificazione della Tessaglia con l’accordo concluso a
Smokovo il 1 maggio 1878, con i capi dell’insurrezione, accettato anche dai
governi turco e greco34.
Il ministro degli Esteri austro-ungarico Andrássy, dopo un duro confronto con Ignat’ev, ardì suggerire al governo greco di inviare le proprie
truppe in Tessaglia, ma ad Atene si preferì non imbarcarsi nella pericolosa
avventura35. Anche in Francia andò prendendo quota una corrente contraria alla Grande Bulgaria (da dimezzare) e a un significativo ingrandimento
del Regno di Grecia36. Di Bismarck si può dire che, pur senza impegnarsi
in nessun modo, non era contrario all’ampliamento dei confini greci37.
Il governo greco a metà marzo del 1878 inviò in missione a Roma una
vecchia conoscenza degli italiani, Konstantinos Lombardos, il quale vide
Depretis e il suo successore Cairoli, convincendosi del forte sentimento
filellenico diffuso in Italia: Cairoli si spinse a dire che le agitazioni nelle
province greche dell’Impero ottomano non dovevano placarsi perché il
Congresso internazionale avesse motivo di occuparsi della questione greca.
Alla prova dei fatti, però, il governo di Roma restò su una posizione di
stretta neutralità38. Da parte italiana in particolare si chiese a Londra se aveva
intenzione di intervenire a Creta per pacificare anche la grande isola che,
come in passato e come in seguito, durante la crisi d’Oriente aveva registrato
una continua agitazione non senza alcuni incidenti39. Estremamente attiva
fu la diplomazia inglese, come già si è visto, e sostanzialmente si può dire
che gli esiti del Congresso di Berlino erano in larga parte scritti negli accordi
anglo-russo, anglo-turco e anglo-austriaco, rispettivamente del 30 maggio,
4 giugno e 6 giugno 187840. Come ha scritto Castellan, «en définitive, les
Puissances dessinèrent seules la carte des Balkans»41.
A Berlino, dunque, le Potenze, a mo’ di compenso per l’atteggiamento
prudente serbato da Atene decisero in maniera un po’ ambigua che la
Grecia ricevesse dall’Impero ottomano l’Epiro meridionale e la Tessaglia.
L’ambiguità consisteva nel fatto che non furono fissati i termini precisi
di quella cessione territoriale, affidandola a una intesa diretta tra Atene
e Istanbul. Come era facile, immaginare, l’accordo tra le due parti
interessate si dimostrò subito difficile. Peraltro, non va dimenticato che altre
cessioni territoriali da parte dell’Impero ottomano a vantaggio di Serbia e
Montenegro avevano innescato la reazione della classe dirigente di quei
territori, in genere albanese musulmana. La Lega di Prizrendi, costituita in
quella occasione, a partire da un impulso dato da Sami Frashëri, segna per
gli storici la prima manifestazione della lotta per l’affermazione dell’identità
nazionale albanese42. Quindi la resistenza della Sublime Porta alla cessione
territoriale nei limiti auspicati ad Atene, non era ispirata solo dal desiderio
di mantenere il più integro possibile il territorio dell’Impero, ma anche dalla
necessità di non entrare in contrasto con una nazionalità fino ad allora fedele
e piuttosto in sintonia con il potere imperiale, come quella albanese. Infine,
va ricordata anche la strenua resistenza che fu messa in atto dall’elemento
musulmano di Bosnia contro l’occupazione austro-ungarica che si risolse in
un vero conflitto43.
In margine a questa vicenda che trovava protagonisti la Grecia, il governo
ottomano e gli albanesi sudditi del sultano, Atene finì per essere scontenta
non tanto o non solo della prudenza che Roma suggeriva ai governanti greci,
al pari delle altre capitali europee, ma anche della sostanziale difesa degli
interessi degli albanesi. Singolare il commento alla pace ‘panslava’ da parte
di Depretis, di fronte alle lamentele greche:
A nostro avviso, non è da considerarsi, né come equo, né come verosimile un ulteriore rimaneggiamento territoriale quale costì [ad Atene] si persiste a vagheggiare. Dopo la stipulazione dei patti di santo
Stefano, divenuti obbligatorii così per la Russia come per la Turchia
fin dal momento in cui furono firmati, la serie dei sacrifizii territoriali
imposti con la guerra dal vincitore alla Turchia, sembra chiusa. Non si
vede in qual modo essa potrebbe essere riaperta e quali fra le Potenze
che non hanno guerreggiato contro la Porta [si ricordi quanto Roma
aveva insistito perché la Grecia non scendesse in guerra] potrebbero
chiedere a quest’ultima di rinunziare alla sovranità di territorii dei
quali non è stata finora spodestata44.
Il ministro degli Esteri Deliyannis finì per accusare il governo italiano di
sostenere la causa degli sqipetari o persino la stessa Sublime Porta. Per arrivare
a questo ci volle tuttavia la fase immediatamente successiva al congresso di
Berlino quando la crisi finì per focalizzarsi, come si è fatto cenno, sull’area
greco-albanese. Però anche negli anni precedenti la documentazione
diplomatica ci testimonia di una politica italiana costantemente volta a
frenare ogni ardore nazionale del governo e del popolo greco.
I diversi e successivi titolari della Consulta in buona sostanza ritenevano45
che la questione orientale dovesse trovare una soluzione progressiva, in
tempi medio-lunghi e in modo quasi naturale. Il quesito riguardava la
sorte dei possedimenti ottomani in Europa: doveva essere allontanato o
meno l’Impero ottomano dal Vecchio continente in cui si era insediato
saldamente da secoli? Essi non gradivano decisioni o atti radicali e audaci.
Ciò significava, a ben vedere, impedire che da parte greca si approfittasse
della situazione favorevole creatasi con la nuova guerra russo-turca. Già al
tempo della prima crisi d’Oriente a metà degli anni Cinquanta vi erano
state incursioni in territori ottomani, appena oltre il confine del Regno
di Grecia, ma il deciso intervento dei governi francese e britannico sul re
Ottone e sul governo di Atene avevano reso vani quei tentativi e le speranze
di realizzare la megali idea46 (costituire una grande Grecia comprendente
buona parte dell’antico Impero bizantino) non si erano potute realizzare47.
Come si è visto, di nuovo negli anni Settanta le Potenze avevano tenuto
a freno il governo ellenico e il movimento nazionale greco, questa volta
lasciando intravvedere un compenso non disprezzabile. Questo fu formulato
al Congresso di Berlino, ma, come si è detto, non in maniera ben definita,
come sarebbe stato opportuno per non innescare nuovi problemi.
D’altronde, a differenza di quanto avvenuto negli anni Cinquanta (allora
il Congresso di Parigi del 1856 aveva favorito il percorso risorgimentale della
nazione romena e di quella serba ma in misura limitata)48, nel 1878 Serbia,
Montenegro e Romania49 ottennero l’indipendenza in luogo dell’autonomia,
nonché ingrandimenti territoriali; nacquero inoltre il Principato autonomo
di Bulgaria e la provincia autonoma della Rumelia orientale50. Non si poteva
negare alla sola Grecia di ottenere un ampliamento del proprio territorio,
come accadeva per gli altri Stati balcanici. Per quanto militarmente debole
e politicamente instabile all’interno, essa avrebbe potuto cogliere l’occasione
per realizzare parte (sicuramente non tutte) delle proprie aspirazioni
nazionali. Quanto promesso nell’estate del 1878 e concretamente assegnato
alla Grecia solo nel 1881, non poté soddisfare a pieno quelle aspirazioni.
Non vi era solo il desiderio dell’opinione pubblica greca di acquisire al
Regno l’intero Epiro, ma restava ancora vivo e forte l’impulso a guardare
alle popolazioni della Macedonia e delle Tracia, se non perfino a quelle di
Costantinopoli e dell’Anatolia.
Si accennava prima alla posizione del tutto particolare del governo
italiano, già intravvista durante la crisi pluriennale, ma ora più netta proprio
quando la guerra era alle spalle e restava in piedi il peculiare contenzioso
tra Impero ottomano e Grecia, dovuto anche all’ambiguità delle decisioni
prese a Berlino. Nel marzo 1879 Depretis dava istruzioni al rappresentante
italiano ad Atene perché facesse comprendere entro quali limiti dovessero
contenersi le richieste territoriali greche, per ragioni generali di opportunità
politica (in ragione della posizione assunta dalle diverse Potenze), ma anche
per lo specifico interesse dell’Italia, di cui tuttavia si vantava la profonda
solidarietà con la causa ellenica. Depretis chiariva dunque l’interesse
che noi abbiamo a che lo smembramento dell’Epiro non abbia a suscitare, da parte dell’elemento albanese, complicazioni che, mentre
nuocerebbero alla causa della Grecia, potrebbero altresì condurre a
conseguenze che noi dobbiamo cercare, possibilmente, di evitare.
Una insurrezione, nelle regioni che ci stanno di fronte nell’Adriatico, e l’anarchia che necessariamente ne deriverebbe, costituirebbero
per noi un pericolo manifesto. Basti accennare agli attriti che potrebbero seguire nei nostri rapporti con l’Austria-Ungheria, e che,
quando non avessero effetto peggiore, avrebbero pur sempre quello
di indebolire la nostra posizione di grande Potenza nel concerto
europeo51.
Il politico italiano ribadiva il 1 aprile seguente che «tutte le nostre informazioni ci additano la probabilità di una resistenza albanese. Naturalmente,
non è possibile determinarne l’importanza; ma il pericolo esiste e le conseguenze potrebbero essere per noi gravi». E pur non negando che dietro
la resistenza organizzata dall’elemento musulmano contro la cessione di
territori dell’Impero ottomano abitati da popolazioni musulmane (spesso
albanesi), vi potesse essere l’influenza della Corte imperiale, notava che le
forze in campo erano locali: «Noi non abbiamo infatti saputo che sia stato
mandato in Epiro un solo battaglione asiatico o di altra provincia turca»52.
Depretis, peraltro, era stato il committente della nota ‘ispezione’
condotta in Epiro dal console Enrico De Gubernatis, grande esperto delle
terre balcaniche, fratello di uno dei più conosciuti intellettuali dell’epoca,
Angelo De Gubernatis. Il console era giunto alla conclusione53 che, in caso
di cessione dell’Epiro o di buona parte di esso alla Grecia, la resistenza
albanese e dell’elemento musulmano vi sarebbe stata senza dubbio, quanto
meno in alcuni distretti, mentre la cessione della sola valle dell’Aspropotamo
non sarebbe piaciuta a Istanbul (poiché la frontiera greca sarebbe stata
troppo vicina alla capitale epirota, Giannina) ma non avrebbe suscitato
grandi reazioni nella popolazione. De Gubernatis, per rispettare le estensioni
territoriali (25.000 chilometri quadrati con circa 450.000 abitanti) promesse
alla Grecia nel congresso di Berlino, riteneva che l’Impero ottomano avrebbe
dovuto cedere l’intera Tessaglia (350.000 abitanti) e non solo una parte,
escludendo, cioè, la valle del fiume Peneos (Selimbria).
Più o meno, nel 1881 Atene e Istanbul, con la mediazione delle Potenze,
giunsero a un accordo in questi termini: «la frontiera tessala veniva, quindi,
spostata verso nord, in modo di includervi i distretti di Volo, Larissa e Trikala,
con una popolazione di 36.000 abitanti. Per contro una rettifica di frontiera
nell’ovest dell’Epiro lasciava Gianina [sic!] alla Turchia»54. Nonostante
la bruciante rinuncia quasi totale all’Epiro, l’incremento territoriale del
Regno di Grecia non fu affatto trascurabile, cui si aggiungeva l’importanza
economica delle campagne tessale. La nuova frontiera dal punto di vista
strategico era più favorevole alla Turchia che non alla Grecia; questa, però,
acquisì mezzo milione di nuovi cittadini55. Per ottenere questo risultato56
ci vollero non solo le trattative bilaterali, assolutamente senza esito, ma
una conferenza a Costantinopoli, una ulteriore a Berlino (senza delegato
turco) nell’estate 1880, la mobilitazione dell’esercito ellenico, voluta dal
Primo ministro Charilaos Trikoupis ad agosto 1880, e una convenzione
delle Potenze con la Sublime Porta (maggio 1881), cui, con la convenzione
turco-greca del 2 luglio 1881, aderì l’ennesimo governo Koumoundouros,
fortemente criticato dall’opposizione capeggiata da Trikoupis.
Prima che calasse il sipario su quella complessa vicenda va ricordato
che in Italia il filellenismo rialzò la testa, mosso anche dalla mobilitazione
proclamata in Grecia. Michele Buscalioni, massone e importante esponente
a suo tempo della Società Nazionale, diede vita alla Società filellenica, con
l’attivo concorso di Marco Antonio Canini, pressando i maggiori uomini
politici italiani perché sostenessero le richieste della Grecia e spingendosi a
offrire al governo Koumoundouros di organizzare una legione di volontari
pronti a combattere al fianco dell’esercito ellenico. Per un’illustrazione
dettagliata di questa vicenda, piuttosto complessa, rinvio a due studi di
alcuni anni fa57; qui è sufficiente ricordare che l’esecutivo entrato in carica
a ottobre ad Atene scelse la strada della prudenza ancora una volta. Come
si vide in seguito nella guerra greco-turca del 1897, l’avventura bellica era
effettivamente troppo rischiosa e l’aiuto di un pugno di volontari non
avrebbe cambiato il rapporto tra le forze in campo.
La questione dell’Epiro anche in seguito continuò ad affascinare gli
amanti dell’avventura. Basta ricordare la pittoresca figura del marchese Adriano Colocci Vespucci di Jesi. Dopo l’esperienza fatta accanto al
principe di Bulgaria Alessandro di Battenberg58, come aiutante di campo
(Battenberg, si ricordi, era nato a Verona), si recò nella seconda metà degli
anni Ottanta in Grecia59 dove fu ammesso al Sillogo Parnaso (l’Accademia
greca), entrando in relazione con la Fratellanza degli epiroti e con l’allora
presidente del Consiglio Deliyannis. Ne nacque l’ennesimo progetto di
legione filellenica, che è difficile dire se fosse sotterraneamente appoggiato
dal governo italiano che a livello pubblico continuava sulla linea della prudenza. Colocci Vespucci pubblicò in italiano e in greco l’opuscolo (ancora
uno) La Grecia e la diplomazia, ma di tutto ciò non se ne fece poi nulla.60
Parlando sia della Francia sia dell’Italia alla vigilia e durante il Congresso
di Berlino, Evangelos Kofos ha scritto che «remained throughout the crisis
on the fringe of the European concert. So detached indeed were these two
Powers from Balkan developments that when they championed the Greek
cause at the Congress their action was based mainly on sentimental rather
than political considerations»61. In definitiva, nella realizzazione parziale
delle aspirazioni nazionali greche e nell’ampliamento dei confini del Regno
di Grecia, il fattore Italia non pesò molto, sia che si tenga presente la
fallita spedizione del 1877 e l’impossibile proposta sortita dal campo dei
filelleni nel 1880-1881, sia che si analizzi la prudentissima linea politica dei
Gabinetti di Roma.
Fonte : PositanoNews.it