Il Museo Correale, chiuso da alcuni mesi per lavori, sta vivendo una profonda trasformazione, da…
Il Museo Correale, chiuso da alcuni mesi per lavori, sta vivendo una profonda trasformazione, da crisalide a farfalla, con un importante ampliamento architettonico e una innovativa sistemazione delle collezioni. Siamo sicuri che Il Presidente Gaetano Mauro, il Direttore Paolo Iorio, il sindaco di Sorrento Avv Massimo Coppola e tutto il personale del Museo da Laura Cuomo alla segreteria a Andrea Fienga assistente alla direzione, arriveranno all’appuntamento del 10 maggio, per celebrare il centenario dell’apertura al pubblico del Museo, nella forma più cangiante e ottimale alle esigenze odierne, secondo i canoni della moderna museografia.
Per prepararci a questo incontro proponiamo un raffinato saggio, di una delle maggiori esperti di Museologia e Museografia, la prof Nadia Barrella, che offre una lettura a 360° attraverso le motivazioni e gli obiettivi, i personaggi, i materiali e le collezioni, e il pensiero filosofico sociale internazionale che accompagnava i tempi. Questo scritto è parte di un volume “I “COCCI” IN ROLLS-ROYCE CARLO GIOVENE DI GIRASOLE E I MUSEI ’AMBIENTAZIONE NELLA NAPOLI DEGLI ANNI VENTI” di Nadia Barrella, lo porgiamo all’attenzione dei cittadini della Penisola Sorrentina in veste integrale per la sua ampia visione, per la ricchezza delle immagini del 1924 e delle note, per la inquadratura mitteleuropea di tutto l’apparato costitutivo del Museo Correale di Terranova. Il saggio muove dalla figura dell’approntatore Duca Carlo Giovene di Girasole, noto a Napoli e in Campania quale architetto -ingegnere, che riesce a dar valore a tutta la collezione dei Correale, dai mobili, importantissimi , alle porcellane, che saranno poi ripresi in tutti i libri di storia internazionali.
Il Museo Correale di Terranova a Sorrento: continuità e innovazione del museo aristocratico ottocentesco
2.1 Il crepuscolo dell’aristocrazia: la nascita del Museo Correale di Sorrento e il ruolo di Carlo Giovene
Sul Museo Correale di Sorrento, costituito nel 19041 ed aperto al pubblico vent’anni dopo, non sono certo mancati, sin dalla sua fondazione, studi, anche di qualità, orientati tuttavia, di solito, ai singoli nuclei collezionistici o alla storia dei suoi fondatori2. Molto poco, invece, si è lavorato sulla forma del museo, troppo spesso genericamente comunicato come “casa-museo”3, favorendo l’idea che a Sorrento si fosse proceduto alla musealizzazione di una preesistenza più che alla realizzazione di uno spazio espositivo appositamente creato grazie ad un preciso progetto museologico. È indubbio che le figure dei donatori, Alfredo e Pompeo Correale, e la qualità di alcuni nuclei collezionistici abbiano attratto maggiormente gli studiosi ma altrettanto evidente è che, per il Museo Correale come per altri musei italiani, sia stata sottovalutata (procedendo in seguito ad una rilevante trasformazione) una scelta espositiva ritenuta “antimoderna” e poco adatta alla lettura dell’opera d’arte nei suoi puri valori formali.
Nato dall’aggregazione di diversi nuclei collezionistici presenti nelle case di Pompeo ed Alfredo4 e non dalla semplice riorganizzazione del preesistente, il Museo Correale, quello aperto per la prima volta al pubblico, è una decisa proposta museografica, un istituto che, forse più appropriatamente, andrebbe definito “museo arredato” costruito per somigliare ad una lussuosa abitazione e raccontare, educando, una storia di luoghi, di arti e di persone. Un museo nuovo e sicuramente diverso dai tanti che, ancora in quegli anni, si mostravano restii ad abbandonare una museologia vecchia, poco evocativa ed elitaria. Nel corso del XIX secolo Pompeo ed Alfredo Correale avevano raccolto una notevole
Fig. 1 – G. Bielschowskij, Ritratto di Pompeo Correale, olio su tela 1868.
quantità di beni e, sulla scia dei grandi collezionisti napoletani (primo fra tutti Gaetano Filangieri), avevano poi deciso di garantirne la pubblica fruizione. Presenti all’Esposizione di arte antica di Napoli del 1877 -che non poco contribuì alla musealizzazione delle grandi collezioni private5 – nel 1904, guardando proprio all’istituzione filangieriana di via Duomo6, Alfredo e Pompeo eressero il Museo Correale come Ente Morale autonomo composto di «quadri antichi e moderni, di una collezione di acquerelli e disegni, di una svariata collezione di porcellane, maioliche e terraglie, di mobili artistici ad intarsio ed intaglio, di alcuni argenti e di altri oggetti». La storia, loro e del museo, la racconta – forse meglio di scritti più recenti – Giuseppe de Montemayor:
«Il padre loro- si legge in «Napoli Nobilissima»-era un vecchio liberale […] egli li educò all’amore della patria e dell’arte; essi completarono la loro educazione viaggiando molto e raggiunsero nella conoscenza degli oggetti artistici una straordinaria perizia, alla quale Pompeo aggiunse anche l’abilità artistica, diventando uno dei migliori scolari del Gigante. E così man mano si dettero a raccogliere quadri, porcellane, maioliche, terraglie, argenti, bronzi, cristalli di Boemia, vetri di Venezia e mobili in tanta quantità e con tali criteri artistici da formare delle collezioni di non poco valore, conservate attualmente nella casa di Napoli, in quella già dei Falangola in Sorrento, nel palazzo della Rota e nella villa del Capo anche in Sorrento. Allora venne loro in mente il pensiero di farne un museo a Sorrento, culla della loro famiglia, che era ascritta a quel patriziato nel sedile di Porta, e dove ne rimanevano ancora vive tante memorie. […] Il palazzo della Rota, scelto per sede le Museo, e il fondo Capo di Cervo, che lo circonda, destinato a formarne il patrimonio, appartengono da tempo antichissimo alla famiglia […]. Non è possibile – scrive de Montemayor- fare una descrizione del futuro museo, trovandosene le diverse collezioni sparse nelle case e nelle ville di Napoli e Sorrento»7.
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Fig. 3 – Villa Correale, sede del Fig. 2 – A. Moriani, Ritratto di Alfredo Cor- Museo, in un’immagine degli anni 30. reale, olio su tela, 1902.
Sceglie, quindi, di darne un cenno sommario elencando le più importanti raccolte e citando poi, per intero, il testamento di Pompeo prima e di Alfredo poi. La Villa alla Rota di Sorrento, nel 1900 proprietà di Alfredo, è da subito indicata come sede per l’esposizione degli oggetti8probabilmente anche per la qualità del paesaggio e per i terreni circostanti che vanno a costituire la rendita fondamentale per il mantenimento dello stesso museo. Eretto a “vantaggio e beneficio del pubblico” l’istituto è indicato, nel testamento di Alfredo, anche come possibile spazio del racconto della città. Qui, infatti, «potranno essere riuniti e raccolti i marmi archeologici ed altre cose artistiche che possiede il Comune di Sorrento o che riguardano la Città di Sorrento»9. È evidente che i “patrizi sorrentini”10 abbiano pensato di legare indissolubilmente la storia della famiglia a quella del luogo. È tipico di molta nobiltà ottocentesca, del resto, legarsi a quei terreni che erano in grado di conservare, almeno in termini simbolici, una condizione di privilegio che non aveva più alcuna base legale. Per i Correale, la Villa alla Rota diventa il luogo della loro autolegittimazione attraverso un percorso espositivo in grado di ricordare l’antichità e la nobiltà della schiatta nei luoghi e attraverso gli oggetti della stessa Sorrento11 referente privilegiata della capitale -a partire dal XV
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Fig. 4 – Gli interni del Museo Correale in un articolo del 1925.
Fig. 6 – Cassettone, sec. XVIII, Museo Correale.
Fig. 5 – Sedie a braccioli in legno noce, prima metà del sec. XVIII – Museo Correale, 1925.
secolo- proprio grazie alle sue famiglie ed al loro potere politico, economico e sociale. «Posti ai margini della vita pubblica – scrive Annunziata Berrino- che la famiglia aveva dominato lungo tutta l’età moderna, gli ultimi Correale cercano un’ultima legittimazione del loro status e della loro distinzione aristocratica nella fondazione del Museo, che oltre a mostrare il loro gusto privato avrà la funzione di ostentare a chi lo visiterà la loro rete di rapporti con l’alta nobiltà»12. Il legame museo-archivio che, come Filangieri, i Correale vorranno portare all’interno della villa è un’ulteriore conferma di questa volontà di formare e raccontare una “casata” che univa i membri in una lunga catena di generazioni e al tempo stesso li connetteva a un gruppo di parentela molto più vasto.
Unificando le raccolte di Pompeo e di Alfredo, l’istituzione avrebbe dovuto dar “lustro alla città dei nostri avi” ed evitare lo “sperpero” degli oggetti assicurandone la conservazione e la memoria dei fondatori. Donando – tra l’altro – mobili, specchiere, “burò, buroncino e cassettino”, “lampieri”, orologi e specchiere i Correale certamente orientarono l’allesti-
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Fig. 7 – Particolare dell’allestimento del Museo Correale nel 1924.
Fig. 8 – La sala delle antichità sorrentine del Museo Correale nel 1924.
Fig. 9 – Sfilata delle sale al primo piano, allestimento Giovene.
Fig. 10 – La sala delle porcellane orientali nell’allestimento del 1924.
mento verso un impianto di tipo ambientalistico in grado di mostrare anche il gusto della famiglia ma gli oggetti che andarono a costituire il museo giunsero a Sorrento – in tempi e da luoghi diversi – molto dopo la loro morte e la donazione alla città, quando, cessato l’usufrutto di Angelica de’ Medici, Principessa di Ottajano e moglie di Pompeo (morta nel 1917 e residente a Napoli), il Consiglio di Amministrazione del Museo avviò i lavori di adeguamento a spazio espositivo della villa ed incaricò, all’uopo, Carlo Giovene di Girasole. Difficile, dati i presupposti teorici illustrati, immaginare un ordinamento rigidamente scientifico e classificatorio del museo che sarebbe stato inadeguato a dar forma visibile alla mission individuata da Pompeo e Alfredo e va precisato, inoltre, che i Correale – se si esclude qualche piccola raccolta – furono privi di un preciso kunstwollen collezionistico e operarono acquisti o acquisirono oggetti probabilmente per l’arredo delle case. Toccherà a Carlo Giovene interpretare la loro volontà e trasformare il patrimonio di opere d’arte dei Correale in una “risorsa simbolica”, rivedere la funzione dei valori culturali, delle pratiche simboliche, e più specificamente dei meccanismi informali di prestigio e d’influenza che servirono a perpetuare il ricordo e l’identità della schiatta.
L’avvio al processo di realizzazione del Museo Correale di Sorrento viene dato, nelle sale del Museo Filangieri, il 19 settembre 1917. L’ente morale sorrentino è inizialmente diretto da un consiglio d’amministrazione di cui fanno parte: il Principe Stefano Colonna di Paliano, direttore del Museo Filangieri, il cav. Luigi Cariello, il Comm. Tommaso Astarita e il Cav. Manfredi Fasulo. Nei primi verbali del Consiglio, com’è facilmente comprensibile, ci si dedica all’organizzazione giuridica ed economica del museo precisando la storia della donazione e le diverse tappe che hanno portato alla nascita dell’istituto: i testamenti dei due fratelli del 1900, lo statuto del 1904, l’usufrutto dei beni lasciato alla moglie di Alfredo, la morte di quest’ultima nel 1917, la scelta della sede. Poi, nel mese di ottobre dello stesso anno, si avviano i sopralluoghi a Sorrento13. Lo spostamento delle opere da Napoli è decretato il 20 ottobre 1917, ma, prima dell’arrivo delle stesse, il consiglio decide di procedere ai lavori di messa in sicurezza delle «porte e finestre del primo piano, mediante serrature alle porte d’ingresso e paletti di legno dietro le finestre ed i balconi». Le verifiche sul contenitore prescelto convincono il consiglio della complessiva inadeguatezza della sede e della necessità di lavori di ripristino. Nel verbale del 16 febbraio 1918 – che ha per ordine del giorno “lavori all’edificio” – si legge quanto segue:
«il Presidente […] riferisce che dovendosi addivenire all’adattamento della casa Correale a Museo, per collocarvi i mobili ed oggetti costituenti il patrimonio artistico, ha chiesto un parere al riguardo, all’egregio Ingegnere Sig. Carlo Giovene dei duchi di Girasole, ed egli, in seguito alla visita dei locali ha indicato le riparazioni allo stabile e le opere a farsi, che si riferiscono. Esso Presidente soggiunge che per effettuarsi i lavori, occorre dividerli in varii lotti per somme inferiori alle lire 500, allo scopo di poter così pagarli con dilazione, in varii tempi, essendo l’unica entrata patrimoniale, costituita dallo estaglio del fondo che si incomincerà ad esigere nel luglio c.a. e si salderà nel giu-
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gno 1919 secondo il contratto di fitto. Interessa poi i componenti ad invitare il prelodato ingegnere ad assumere la direzione dei lavori»14. L’avvio dei lavori al Museo Correale è ricordato anche da Carlo Giovene nel suo manoscritto già più volte citato:
«Nel 1918 – scrive lo stesso Carlo – venuta a morte la Principessa di Ottaiano Angelisa dei Medici, usufruttuaria dei beni del Conte Pompeo Correale, fu costituito l’Ente Morale Correale di Terranova, da formarsi colle raccolte di Arte Antica dei Conti Alfredo e Pompeo Correale e con quella lasciata in eredità dalla medesima Principessa di Ottaiano. Il Giovene (il testo è sempre scritto in terza persona nda) ebbe incarico simultaneo dagli eredi Ottaiano e dal Consiglio di Amministrazione dell’Ente Museo di procedere allo studio, alla scelta ed all’ordinamento degli oggetti per erigere il nuovo museo nella Villa Correale di Sorrento»15.
Carlo Giovene entra dunque quasi subito nella storia del Museo sebbene, in un primo momento, solo come direttore dei lavori di restauro della sede. La scelta di affidare a Giovene anche l’organizzazione dell’esposizione e la complessiva progettazione del museo non tarda però a venire. Nell’agosto del 1918, il Presidente esorta il consiglio a pensare alle “norme di ordinamento” del museo e propone che «sia fatto invito all’egregio Ingegnere Carlo Giovene dei duchi di Girasole, di dirigere e stabilire il collocamento dei mobili ed oggetti d’arte legati al Museo».
Difficile capire esattamente quali strade possano aver portato Giovene al Correale. Continuando a prender spunti dal romanzo del figlio, di cui abbiamo avuto modo di verificare la stretta connessione con le reali vicende familiari, balza agli occhi un’indicazione che si riferisce al 1917: «poiché le privazioni della guerra si facevano sentire in città, Gian Luigi
Fig. 11 –Museo Correale, Stipo in tartaruga, metà XVII sec., allestimento Giovene 1924.
Fig. 12 – Museo Correale, particolare della sala XVII, allestimento Giovene 1924.
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[Carlo] trasferì la famiglia anzi tempo nella stagione, a Sorrento»16 tornando a Napoli solo nel mese di ottobre. Ci sarebbe dunque, se fa fede il romanzo, una strettissima coincidenza tra la presenza di Giovene nella città dei Correale e l’avvio dei lavori nella Villa alla Rota. Questa coincidenza potrebbe servire a spiegare le circostanze che hanno portato il nostro ingegnere al museo: è nel posto giusto al momento giusto e con le giuste competenze. Ma c’è forse qualche altra considerazione che, sempre a partire dal romanzo, è ossibile fare. L’immediato dopoguerra corrisponde, per la romanzesca famiglia Sansevero, al periodo in cui viene completata la grande casa di Monte di Dio. Qui, come si è detto anche nel capitolo precedente, Gian Luigi sistema e rende visibile la sua grande raccolta di oggetti d’arte dal 1917, periodo in cui avvia attività mondane per «vagliare e cernere le persone […] secondo criteri determinati e perché valessero stabilire quella specie di osmosi tra la pratica politica e l’eleganza mondana che fu sempre l’appannaggio delle classi elette»17. Gian Luigi costruisce un nuovo sistema di contatti e di relazioni sociali che – in un contesto economico, politico e sociale notevolmente modificatosi – devono poter servire al rafforzamento del suo ruolo sociale, legittimare la famiglia, restituire vigore all’antica nobiltà. Feste, cotillon e salotti sono gli strumenti utilizzati da un uomo che vuol esser nuovamente parte dell’alta aristocrazia napoletana, quella «élite nobiliare, tanto altezzosa» di cui si circonda quasi quotidianamente. Non escluderei che lo stesso abbia fatto Carlo: sistemata la casa di Via Nicotera, esposta la collezione, lavora per reinserire la famiglia «nel circolo di una splendida vita sociale e mondana»18. È quindi molto probabile che il riferimento alle feste ed ai salotti del libro nasca da un rituale salottiero avviato anche da Carlo Giovene che, giunto ai vertici della piramide della ricchezza, cerca nuova legittimazione presso l’ampia società di cui il salotto è parte organica e diretta emanazione. Diverso dai salotti sette-ottocenteschi, quello
Fig. 13 –Museo Correale, particolare della sala XII, allestimento Giovene 1924.
Fig. 14 – Battenti del Palazzo Pianura a Napoli, foto di Ferdinando Lembo per gli studi di Carlo Giovene (in seguito solo FCG), 1925 ca.
di fine otto – inizi nove continua, anche a Napoli, ad essere spazio importante di socialità informale utile per acquisire rispettabilità ma anche, comprensibilmente, capacità “contrattuale”. Credo che in quest’ambiente Giovene abbia ricreato quei rapporti con la nobiltà napoletana che lo portano a Sorrento, alle iniziative degli anni venti ed al Museo nella Floridiana. Se l’esser nobili aveva significato, in passato, non solo esser distinti dagli altri ceti ma anche godere di deleghe giurisdizionali concesse dal sovrano oppure essere una parte dello stesso corpo sovrano, già alla fine dell’Ottocento, ben poco era ormai rimasto di questo universo nobiliare. La Grande Guerra danneggia ulteriormente il poco rimasto. L’identità di ceto della nobiltà, si è detto, «al massimo poteva essere riempita di piccole e tronfie strategie sociale, dalla soddisfazione di esibire sui propri cartoncini da visita il titolo, o sulle portiere delle carrozze e sul portone dei palazzi di città e di campagna lo stemma con le insegne araldiche di famiglia»19. Se il declino della presenza aristocratica è considerevole nella vita politica e amministrativa della nazione, diversa è la reale portata del coinvolgimento aristocratico nella sfera pubblica a livello locale. La nobiltà napoletana tende, come avviene in molte altre parti d’Italia, ad esercitare la propria influenza nella vita pubblica proponendosi quale simbolo onorevole e disinteressato dell’ordine e della stabilità sociali, organizza attività filantropiche, presiede consigli direttivi nelle più importanti istituzioni in campo culturale e assistenziale e diventa socia fondatrice di società sportive e ricreative. Carlo Giovene, con la sua grande casa che faceva di lui “un sopravvissuto ed un antesignano”, è un perfetto interprete di tutto ciò, per interesse – certo – ma anche per vocazione: Carlo, come
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Fig. 15 – Armadi nella sacrestia dell’Annunziata di Napoli, FCG, 1925 ca.
Fig. 16 – Coro dei monaci della Chiesa di Santa Chiara a Napoli (part.), FCG, 1925 ca.
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il Gian Luigi del romanzo, è«un ibrido, nel quale il paladino e il capitano d’industria, [sono] serrati dentro la stessa persona, pur rimane[ndo] divisi»20. All’imprenditore e al paladino insieme guarda con interesse il Consiglio d’amministrazione del Correale. L’imprenditore entra nella Villa alla Rota. Ad operare sarà però soprattutto “il nobile cavaliere” che a Sorrento cercherà – come aveva fatto nella propria casa ma valutando le necessità del “nuovo” museo rivolto ad una molteplicità di pubblici – di creare uno spazio in grado di rappresentare ancora i fasti di quell’antica nobiltà il cui “imborghesimento” è, di fatto, ancora poco accettato. «Egli – leggiamo ancora nel Curriculum di Carlo – si accinse all’opera dedicandosi ad essa per oltre sei anni, e compiendo da solo ogni necessario lavoro, perché mancavano i mezzi per procurarsi qualsiasi aiuto. E rinunciò ad ogni compenso ed al rimborso delle non lievi spese incontrate nel lungo periodo di esecuzione del lavoro compiuto in sito lontano dalla sua residenza»21.
2.2 La riscoperta del Barocco: Giovene e l’allestimento di ambientazione
«Il Museo fu solennemente inaugurato dal Ministro Gentile il 10 maggio 1924, ed è stato in seguito visitato da numerose alte personalità, che ne hanno lodato l’ordinamento, da qualcuna di esse indicato come modello da seguirsi. In tale senso si sono pronunciati anche illustri critici esteri. Ma, malgrado tutto ciò, la esistenza di questo Museo pare che sia ufficialmente sconosciuta alla Direzione Generale delle Belle Arti»22.
Fig. 17 – Battenti della Chiesa del Carmine maggiore di Napoli, metà XVIII sec., FCG,1925 ca.
Fig. 18 – Battenti del palazzo Diomede Carafa, FCG,1925 ca.
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Tornerò in seguito su quest’ultima riflessione di Carlo Giovene legata alla difficoltà di rapporti con gli enti statali preposti al patrimonio culturale che caratterizzerà soprattutto il suo lavoro per il Museo duca di Martina. Di questa citazione mi preme, per il momento, segnalare due punti: il primo riguarda la presenza del Ministro Giovanni Gentile, il secondo il riferimento all’allestimentodel museo come “modello da seguirsi”.
Nel discorso inaugurale, CarloGiovene presenta il Museo Correale come uno spazio nuovo rispetto alle altre istituzioni museali campane, luogo di «quanti amarono e raccolsero le leggiadre forme dell’arte barocca, e ne fecero dono generoso […] Essenzialmente barocca, adunque, è la raccolta Correale: di quelle forme d’arte, cioè, che forse raggiungono, fra tutte, la espressione più completa del sentimento e della vita del lorotempo». Particolarmente interessante il passaggio successivo, quello in cui si fa riferimento agli «studiosi, alcuni intellettuali, gli ipercritici, con i loro preconcetti, collo sguardo fisso nelle pure visioni del passato, chiusa la mente al rigoglio delle nuove idee [che] dichiararono fin dal suo primo sviluppo il barocco stile decadente»23. Siamo nel 1924, Benedetto Croce sta lavorando alla sua Storia dell’Età Barocca in Italia24con cui, discordando notevolmente da molte delle prospettive correnti, esprime un giudizio di aperta condanna delle debolezze morali e politiche che avevano afflitto l’Italia dell’epoca. L’indagine sulla decadenza del passato è, per Croce, soprattutto ammonimento etico-morale per i suoi contemporanei ma duro è l’attacco anche alla forma barocca, un “peccato estetico” una perversione artistica:
«il barocco – scrive il filosofo – è una sorta di brutto artistico, e come tale, non è niente di artistico, ma anzi ha, al contrario, qualcosa di diverso dall’arte, di cui ha mentito l’aspetto e il nome, e nel cui luogo si è introdotto o si è sostituito. E questo qualcosa, non obbedendo alla legge della coerenza artistica, ribellandosi a essa e frodandola, risponde, com’è chiaro, a un’altra legge, che non può essere se non quella del libito, del comodo, del capriccio, e perciò utilitaria o edonistica che si chiami. Onde il barocco, come ogni sorta di brutto artistico, ha il suo fondamento in un bisogno pratico, quale che questo sia, e comunque si sia formato, ma che, nei casi come questo che si considera, si configura semplicemente in richiesta e godimento di cosa che diletta, contro tutti, e, anzitutto contro l’arte stessa» 25.
Profondamente diversa la posizione di Giovanni Gentile che, negli stessi anni, andava aumentando il suo distacco da Croce. È probabile che, guardando con attenzione alle scelte culturali del Ministro, Giovene miri ad ottenerne il consenso. Rimandano all’idea gentiliana
Fig. 19 – Coretto in legno intagliato e dorato, Chiesa del Pio Monte della Misericordia di Napoli, FCG, 1925 ca.
dell’arte come “momento dialettico dell’immediato sentimento”, passaggi del suo discorso che leggono l’arte barocca come “espressione dell’anima e delle passioni umane, amore della vita e protendersi verso Dio” e, in generale, l’attenzione a porre l’accento sulla forma come concretezza di un contenuto reale. Al di là della condivisione dell’estetica gentiliana sottolineata, magari, anche per scelta opportunistica, resta però l’attenzione al barocco napoletano e, soprattutto, l’evidente conoscenza del processo di riscoperta di questo momento dell’arte che, avviato già nei primissimi del Novecento, aveva portato all’importante mostra di Palazzo Pitti del 1922 dove Ugo Ojetti, coadiuvato da una squadra di commissari scelti fra gli storici dell’arte più brillanti e autorevoli del tempo, aveva operato proprio in direzione della riscoperta di un’epoca, diradandone – come osserverà il nostro – «le nebbie, e rivelando di nuovo magnifiche visioni di arte»26. Giovene conferma, anche in questo caso, il suo guardare con attenzione a Firenze e più in generale a quel gruppo di conoscitori e antiquari che operarono non poco in direzione della riscoperta di un’epoca disponibile sul mercato, tra l’altro, anche a prezzi ragionevoli. Ma il nostro, ed è questo il dato veramente interessante, sia pur con un eccesso di retorica comprensibile data la situazione, tenta di penetrare il valore dell’arte barocca e di situarne storicamente il significato. Nel ricostruirne l’evoluzione napoletana pone l’accento sulle eccellenze architettoniche, sui pittori – di cui lamenta ancora la scarsa conoscenza – e, soprattutto, sulle arti “minori” che «seguono con ritmo carezzevole lo slancio meraviglioso delle maggiori. Nelle Chiese e nelle magioni sontuose – ricorda – gli stucchi e le cornici marmoree si sviluppano in una efflorescenza piena di fantasia e di grazie, si intagliano cori superbi; i mobili prima maestosi e coperti di intarsi si illegiadriscono man mano, rigonfiano i fianchi con senso vanitoso, ma con movenza piena di grazie e si adornano di bronzi; i piccoli belli oggetti si moltiplicano, ed, alfine, la manifattura di Capodimonte, se pur non raggiunga sempre nei suoi prodotti una assoluta perfezione tecnica, supera tutte le altre per eleganza e purezza di forme»27.
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Fig. 20 – Banco per chiesa, Italia meridionale, XVI sec., Kaiser Friederich Museum, foto eseguita per C. Giovene.
Fig. 21 – Doppio banco per chiesa, Italia meridionale, XVI sec., Kaiser Friederich Museum, foto eseguita per C. Giovene.
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È il Giovene conoscitore che parla, l’appassionato collezionista che in questi anni sta rafforzando le proprie passioni con studi accorti ed analisi di stile che risulteranno, per l’Italia Meridionale, pressoché inediti28 e che giustificano pienamente la sua successiva partecipazione -come componente del Comitato generale29 e collaboratore dell’Ufficio Direttivo (per la sezione dei mobili e per le ceramiche)- alla mostra del Settecento Italiano tenutasi a Venezia nel 1929. Riesce difficile, in assenza di notizie sulla sua biblioteca, riuscire a capire quanto abbia letto di Ugo Ojetti, Matteo Marangoni, Hermann Voss e dei tanti altri che avevano avviato il processo di revisione dell’arte barocca30 ma appare evidente la sua convinta ed esperta condivisione della qualità della civiltà figurativa del Seicento e del Settecento italiano e la piena conoscenza di quanti proponevano un approccio molto diretto all’opera d’arte. Accomuna la maggior parte di questi studiosi, tra l’altro, una notevole tendenza alla divulgazione che “prese forma” in articoli di giornale e in alcune riviste31 che affiancarono, programmaticamente, le esigenze di studio, di analisi, di valorizzazione di epoche e artisti poco o mal conosciuti alla volontà di non confinare l’arte solo alla cerchia ristretta degli specialisti e di raggiungere anche la gente comune. L’arte, come scriverà con grande chiarezza soprattutto Ugo Ojetti, è sentita come “bene comune” e comporta, come conseguenza, la finalità divulgativa degli studi storico-artistici.
«Questo è il mondo alla rovescia- sosterrà nel 1919- come chi dicesse che una commedia basta rappresentarla davanti ai critici teatrali, o che le stelle del firmamento sono fatte solo per gli astronomi, e i fiori solo pei botanici. Se l’arte, nonostante i vocalizzi sulla patria del bello, non è popolare in Italia, se i quattro quinti dei visitatori dei nostri musei, in tempi normali sono stranieri, la colpa è proprio di questi boriosi pregiudizi coi quali i così detti studiosi escludono arcigni dai loro pretesi domini il pubblico.[…] Non occuparsi d’arte? Bisogna invece tornare a convincere il pubblico che tutti se ne occupano anche senza addarsene, perché quando una massaia entra dal falegname e si sceglie una seggiola e, a parità di comodo, questa le piace più di quella, la massaia s’occupa proprio d’arte, fa proprio della critica d’arte, anzi la fa più attivamente di noi perché la sua scelta se la paga coi suoi denari e non, come noi, solo con le parole»32.
Portando avanti un’aperta critica alle nomine ministeriali tratte da «poli artici ed antartici » lontane dalla vita e dall’arte che non è solo quella «messa in fila nei musei», Ojetti sottolinea la costante disattenzione alle arti minori. «Le maestranze di stucchinai, ceramisti, marmisti, bronzisti, vetrai e decoratori, stipettai, intagliatori, si fiaccano e si disperdono, togliendoci per tutto il mondo il solo primato che, sebbene anonimo, ci restava». Pur non raggiungendo la profondità dell’analisi di Ojetti, né la densità della sua proposta operativa, Giovene aderisce pienamente a questa impostazione: all’idea di un museo sempre più sentito come strumento di sviluppo per la nazione e, per il Correale, sceglie una forma allestitiva che si orienta, decisamente, verso forme espositive più comprensibili ed accessibili al pubblico.
Quanto aveva già proposto, sorretto da simili motivazioni, ma non aveva più avuto modo di realizzare in Palazzo Reale, prende forma a Sorrento
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«Fino ad ieri- ricorda Giovene nel suo discorso inaugurale- trafficanti senza scrupoli cancellavano le firme sulle tele dei maestri nostri che erano poi assegnate ora agli spagnuoli, ora ai veneziani ed ai fiamminghi, secondo le tendenze commerciali del momento. E sono spesso assegnate a fabbriche francesi le belle paste bianche di Capodimonte, ed ai nostri mobili intarsiati e scolpiti si modificano le ossature per venderli sui mercati esteri come prodotti francesi, od inglesi o di Olanda. E così man mano spariscono i campioni più belli dell’arte nostra, e si accresce la gloria dell’arte altrui. Tutto ciò deve finire ed è tempo ormai di formare pubbliche raccolte della nostra arte barocca, prima che una speculazione avida e senza scrupoli non disperda gli scarsi esemplari che ancora rimangono da noi. E questo, sono ormai cinquanta anni e più, presentirono i Conti Correale, primi fondatori di questo Museo, forse modesto in se, ma grande per la nobiltà dello insegnamento e dello esempio. Dovrebbero tali raccolte essere disposte con criteri nuovi. Durante lo scorso secolo, al suo inizio dominato dagli aridi principi neo-classici, il museo d’arte fu ordinato con criteri puramente scientifici, e diventò una fredda esposizione, ove le opere perdevano ogni senso di relatività, ed abbandonando quella che vorrei chiamare la espressione della loro funzionalità nello ambiente sociale del loro tempo, apparivano ognuna, come espressione individuale, solo in rapporto con espressioni della stessa specie.
Si videro, e si vedono ancora, le sale riempite di vasi, o di quadri, o di affreschi, o di minute suppellettili, scrupolosamente allineati, difesi, catalogati: ma dove era più, dove è mai la manifestazione piena del mondo che quelle forma d’arte debbono rivelare al visitatore, se pur sia persona rozza ed incolta?
Il museo deve essere, invece, come un facile libro nel quale tutti debbono poter leggere, e deve questo libro essere la chiara rivelazione dell’età che le opere raccolte rappresentano, attraverso alle immortali forme dell’arte. E non hanno, in questa rivelazione, le opere di arte applicata minore importanza di quelle di arte pura, ché, anzi, le prime meglio parlano ai più, e la vera funzione che compiono nella società umana gli eccelsi geni dell’arte è di indicare ai minori ed agli umili la via. E se la potenza talvolta super-umana dei sommi è sentita e raggiunta da pochi, l’opera dei minori artefici dell’arte applicata è sentita da tutti e, compiendosi un processo inverso a quello originario, dalle più modeste forme, con graduale educazione, si eleva man mano lo spirito a raggiungere la comprensione delle forme pure. Dunque il Museo non deve essere una fredda esposizione di opere ordinate per forme
Fig. 22 – Pergamo, Parrocchia di Lacco Ameno (Ischia), primi del XVII sec., FCG, 1925 ca.
e generi. Deve essere una espressione completa di vita, col rispetto di quelle fila ideali che legano l’una all’altra forma, da quella che solleva lo spirito alle più alte vette alle altre che completano l’intima gioia familiare, allietando lo sguardo con la forma bella del piccolo ninnolo. Restino solitari i capolavori eccelsi, in ambienti intonati e coevi. Ma non deve il Museo mostrare con calcolata freddezza scientifica l’opera di un’artista, che spostata dal suo naturale ambiente non può essere più completamente sentita, ma deve esso stesso essere una completa espressione d’arte. Onde il suo ordinatore deve essere uomo di cultura e deve essere, nel contempo, un artista. Inoltre, un siffatto museo deve mostrare con chiarezza la origine e la progressione, nel tempo, delle diverse forme di arte, il formarsi e lo svolgersi degli stili, in cammino concorde colla civiltà del tempo, cosicché quasi il visitatore la riviva. Man mano avanzando, e scorga da quale rigore logico, da quale stretta legge di premesse e di conseguenze sia regolato il cammino dell’arte, come quello di ogni civiltà e di ogni fatto umano»33.
Ho voluto citare una così ampia parte del discorso inaugurale perché credo offra spazio a molteplici riflessioni su Giovene “museologo” e sull’idea di museo di cui si fa portatore. Il suo museo è indiscutibilmente spazio di conservazione. Ha il compito di tutelare quanto il tempo e il mercato dell’arte tendono a far scomparire o ad alterare, distruggendo l’originalità del pezzo e il suo essere testimonianza della cultura di un luogo e di un determinato momento storico. C’è però un dato molto nuovo e interessante che emerge dalla sequenza delle sue riflessioni: il vero ostacolo alla speculazione ed alla dispersione è la memoria, la conoscenza. Alle finalità conservative si legano indissolubilmente quelle educative e se anche queste erano ormai da qualche tempo acquisite, del tutto nuovi sono i destinatari di queste azioni. Il museo è un libro, ma deve esser “facile” e tutti vi devono poter leggere dentro. Un nuovo rapporto può dunque nascere tra visitatori e patrimonio esposto ma il museo deve diventare un luogo vitale. Non più la rigida tassonomia ottocentesca ma spazi
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Fig. 23 – Dormeuse in bronzo e oro, Reggia di Caserta, ultimo quarto XVIII sec., FCG, 1925 ca.
Fig. 24 – Mensola laccata in bianco con dorature, piano in alabastro orientale antico rilavorato, Napoli casa del Marchese di Vasto e Pescara, 1775 ca., FCG, 1925 ca.
in cui le opere possono parlare raccontando la storia di uomini, di abilità e di luoghi. Musei, dunque, come spazi di cultura identitaria collettiva, in grado di comunicare finalmente con tutti, d’insegnare storia, gusto e trasmettere conoscenze. Non è una riflessione nuova per l’Italia. Già Corrado Ricci, ad inizio novecento, aveva posto l’accento sulla necessità di un linguaggio museale in grado di rendere comprensibile e divulgabile ad un ampio pubblico la storia dei monumenti34 ma è soprattutto negli anni venti – anche grazie al dialogo con i responsabili dei musei statunitensi – che si rafforza il dibattito sulla necessità di nuove forme allestitive e di un nuovo ruolo sociale del museo. «Pour la première fois sont mis sur un pied d’égalité, et la recherche d’une disposition esthétique des oeuvres, et le soin d’éviter le dégoût et la fatigue chez le visiteur, et la fonction pédagogique du musée, et, enfin, le devoir de ne livrer à l’appréciation du public que des oeuvres dont les qualités sont avérées» 35.
La riflessione dei maggiori architetti allestitori del tempo è rivolta al modo in cui ridurre la frattura tra il contesto temporale e geografico delle opere e l’hic et nunc del visitatore. «Pour ceux-là, cette rupture explique sans doute l’incapacité de beaucoup de visiteurs à pouvoir interpréter les oeuvres examinées. Ils promeuvent alors la reconstitution de chambres, de cabinets, de salons de musique, de cloîtres ou de cours intérieures qui accueillent des peintures, des sculptures, des meubles, des tapisseries et autres objets
d’art, d’une même période, souvent d’une même origine géographique. Sont ainsi créés les « period rooms » ou « ensembles », dans lesquels se développent des « atmosphères » suggestives qui, par des « coïncidences » entre les oeuvres, évoquent leur destination originale et permettent de mieux les comprendre. Il n’est pas aisé de dater la première réalisation de ce type de mise en exposition. S’il est bien quelques musées et expositions qui vont dans ce sens dès le XIXe siècle, il faut attendre le premier tiers du XXe siècle pour voir apparaître de telles reconstitutions, à grande échelle et dans les salles d’expositions permanentes. En Europe, ces reconstitutions sont d’ailleurs rarement réalisées dans les musées exclusivement dédiés à l’art. Le Schweizerisches Landesmuseum
de Zurich et le Bayerisches Nationalmuseumde Munich créent ainsi des reconstitutions, notamment mais pas exclusivement, pour des oeuvres. Ce sont surtout les musées ethnographiques qui développent ce concept, dans l’est et le nord de l’Europe principalement (Darmstadt, Lubeck, Magdebourg, Nuremburg, Copenhague, Stockholm, Bygd). Aux Etats-Unis, la situation est relativement différente. Le Museum of Art de Cleveland présente des reconstitutions dès 1917, mais encore de manière relativement limitée (dans quelques salles seulement); le succès de ce type de mise en exposition apparaît réellement au moment de l’exposition des chambres de l’aile américaine du Metropolitan Museum de New York en 1924. […] Les initiatives à cette époque sont nombreuses, variées, parfois très originales. De manière générale, ces dernières s’emploient à favoriser une meilleure appréciation des oeuvres d’art par le public visiteur et, pour ce faire, elles s’orientent vers deux types de démarches. La première promeut des bonnes conditions de perception des oeuvres d’art ; elle concentre son at-
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tention sur les phénomènes physiologiques (en ce compris les principes d’ergonomie visuelle) pour produire une monstration efficace ; elle développe une approche « esthétique ». La deuxième démarche élabore et promeut des outils pour faciliter l’interprétation; elle évoque, explique, fait référence, pour que le visiteur comprenne, déchiffre, imagine; elle réalise en quelque sorte une démonstration et participe à la construction d’une approche « didactique ». L’une et l’autre démarche ne s’opposent pas, la deuxième pouvant d’ailleurs avantageusement compléter la première. Toutefois, l’histoire montre que l’approche « esthétique » détermine largement les réalisations d’entre-deux-guerres. L’approche « didactique », il est vrai, dépend directement des qualités pédagogiques des muséologues – aptitudes peu développées à l’époque. L’urgence des réformes à entreprendre dans les musées à ce moment amène logiquement les professionnels du musée, qui veulent rompre avec les pratiques du passé, à se tourner vers des solutions durables, qui répondent à des objectifs rigoureusement définis. Il semble mieux valoir se limiter à une mise en exposition sobre et efficace que de s’aventurer vers une terra incognita ; les visiteurs sont supposés posséder les bagages nécessaires pour l’interprétation des oeuvres»36. Giovene conosce il dibattito sulla necessità di svecchiare il museo e di restituire centralità al pubblico piuttosto che alle opere, ha piena consapevolezza del fatto che il museo sia dei suoi visitatori e che questi ultimi debbano esser soprattutto persone comuni. È dunque in linea – ed è un dato di estrema precocità e quasi del tutto assente nel dibattito napoletano37
– con il citato processo di revisione di funzioni, priorità e forme del museo che in Italia porterà ad interessanti proposte allestitive oltre che a vivaci dibattiti tra quanti (si pensi a Pompeo Molmenti o a Francesco Malaguzzi Valeri) sostenevano l’utilità dello storicismo culturale espresso dai musei di ambientazioni e chi, invece, (come Roberto Longhi e Lionello Venturi) pensava che “l’ambiente” non aggiungesse nulla alla necessità di leggere un’opera solo nei suoi puri valori formali. Giovene non ha dubbi e opta per una forma espositiva che possa consentire al visitatore di comprendere, decodificare e immaginare38.
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Fig. 25 – Mensola dorata, Napoli Real Palazzo di Capodimonte, metà del XVIII secolo, FCG, 1925 ca.
Fig. 26 – Mensola, Napoli Real Palazzo, primo quarto del XIX secolo, FCG, 1925 ca.
Senza arrivare alle “period rooms”, senza ricorrere ad inutili false ricostruzioni, egli si orienta, con intelligenza e sobrietà, per quel “senso di relatività” fra le opere indicato nel suo discorso inaugurale, tentando di restituire e rivelare – attraverso il rapporto tra diverse tipologie di oggetti – “l’età” che le opere raccolte rivelano. Il percorso del Museo realizzato da Giovene appare al visitatore molto leggibile: al piano terra, ci sono spazi ordinati per raccontare e confrontare la storia dei Correale e quella di Sorrento. In ordine cronologico, i reperti archeologici provenienti da Sorrento decorano l’atrio e accompagnano il visitatore alla prima sala interamente dedicata ai donatori, al loro padre e ad Angelica de’ Medici. Sorrento e i Correale: il racconto è narrato attraverso la raccolta Tassiana, il paesaggio sorrentino (sala II), le lapidi tombali e gentilizie delle altre famiglie e i frammenti architettonici degli edifici storici della città (sala III). Il visitatore legge l’antichità del luogo (bello anche il contrasto cromatico tra le pareti e gli oggetti esposti), il succedersi delle epoche e il ruolo di punta avuto dalla famiglia cui si sono legate, nel tempo, altre casate i cui stemmi gentilizi, guardando probabilmente all’allestimento del museo Filangieri, vengono esposti da Giovene sulle pareti del monumentale scalone39.
Il pianterreno appare dunque come una premessa generale (è lo spazio anche delle donazioni aggiuntive) alla celebrazione della famiglia, del suo gusto e del suo splendore che trova posto nelle sale successive. Le antiche immagini delle sale superiori del Museo Correale restituiscono una straordinaria mescolanza di pitture, mobilio, oggetti d’arte applicata senza alcuna gerarchia di generi, di epoche o di tipi. Le stanze, senza dubbio, guardano a quelle “d’epoca” ma l’effetto complessivo non è tanto quello di uno stucchevole spazio di “vita fermata”, l’illusione della “storia recuperata”, quanto un tentativo di “rianimare” il passato per costruire agli oggetti un nuovo destino, ricomporre un contesto studiato e dunque appositamente esposto “secondo un criterio di epoche e di finalità”40. La citazione è tratta da un articolo in tedesco illustrato da tavole che consentono di leggere l’eleganza e la particolarità delle sale del Museo, dove i secoli si mescolano con gusto ed eleganza seguendo quel criterio che il romanzesco Gianluigi di Sansevero aveva così bene espresso:
«lo stile vero non consiste nell’allineamento delle cose simili, come nei musei, ma nell’armonia di oggetti diversi»41. È evidente che il polemico “come nei musei” rimandi alle disposizioni tipologiche o per serie cronologiche dei musei ottocenteschi ed è molto interessante che, al Correale, Giovene metta in pratica la sua idea di esporre “un po’ di tutto”. Questo criterio era particolarmente caro ai dilettanti e ai conoscitori d’arte che prevedevano (si pensi al già citato Bardini) preziosi accostamenti fra le opere in rapporto alle loro dimensioni e all’ambiente di destinazione, in modo da far risaltare i pezzi disposti non in isolamento, ma in stretta relazione tra loro. “L’uso e il recupero del passato – è stato scritto- si modifica nell’intento collezionistico nel corso dell’ottocento […] per diventare sintesi di un’immagine individuale di storia, attestato di un passato soggettivo ricreato in un ambiente privato” 42. È innegabile un allestimento “di respiro”, dove le opere, eviden-
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temente, rispondono anche al gusto e al “sentire”, frutto di una vita di esperienza sugli oggetti e sulla loro disposizione, “l’esercizio competente di un sensibile tramite tra luogo di origine delle opere e il museo”43 ma, altrettanto necessario, è precisare che Giovene non rinuncia in alcun modo ad illustrare al pubblico, nel modo più completo e storicamente possibile, cosa sia uno stile, come riconoscerlo e come datarlo anche per favorire e promuovere le applicazioni dell’arte all’industria. Morazzoni, che descrive il Museo nel 1938, segnalerà costantemente – nella sua guida- il ruolo predominante di mobili, stipi, maioliche, terraglie che finivano con il predominare visivamente sui pur numerosi dipinti presenti alle pareti.
Il museo Correale, scrive, è lo spazio della “manifestazione dell’arte dell’arredamento di lusso napoletano”44, uno spazio rappresentativo della cultura, dei costumi e della vita di un tempo e di un luogo cui il museo deve rivolgersi affinché i documenti in esso raccolti ed esposti siano strumento di crescita e di trasformazione.
2.3 Le arti applicate, lo studio del mobilio settecentesco.
Il Museo sorrentino apre al pubblico dotandosi immediatamente di un catalogo/guida illustrato, semplice, chiaro e poco costoso45. Il libretto inizia con una brevissima storia delle collezioni che è conclusa da un’interessante riflessione sulla “missione” dell’istituto: «le raccolte di questo Museo in modo particolare documentano la geniale attività dei cultori delle arti minori: ebanisti, intarsiatori, laccatori, ceramisti, scultori in legno ecc. dei Sec. XVII e XVIII e soprattutto rievocano la feconda operosità degli artefici napoletani che fio-
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Fig. 27 – Cassettone siciliano, metà sec. XVIII, Napoli Casa del Duca di Casapesenna, FCG 1925 ca.
Fig. 28 – Comodino impiallacciato con bronzi dorati, metà XVIII sec., Napoli proprietà privata, FCG, 1925.
rirono sotto il regno di Carlo III e Ferdinando IV di Borbone: è necessario convenire che i vecchi artefici napoletani sia per abilità tecniche, sia per vivacità di fantasia, non appaiono inferiori ai loro più celebrati colleghi delle altre regioni d’Italia e d’Europa»46. Non sappiamo chi abbia redatto il testo ma è molto probabile che sia stato lo stesso Giovene a predisporlo o a seguirne comunque la pubblicazione. La riflessione sulla “geniale attività” dei cultori napoletani delle arti applicate appare in linea con quanto Giovene aveva già affermato in occasione della polemica sui “cocci” del Duca di Martina e corrisponde, inoltre, al rinnovarsi del dibattito sulle arti applicate a Napoli che, avviatosi già nel secondo ottocento, era stato ripreso ad inizio secolo da Giovanni Tesorone e poi da quanti, tra gli anni Venti e Trenta, rivendicarono il ruolo della produzione di arti applicate anche per difendere storia e tradizioni. Le arti applicate, dichiaratamente popolari, erano ritenute in grado di richiamare in causa l’artigianato e la sapienza di mestiere tramandato di generazione in generazione.
Si cominciò, pertanto, a propagandarle come valenza indispensabile allo sviluppo, risorsa economica e culturale. 47 Molta parte dei documenti conservati presso l’archivio Giovene ci mostra un uomo in linea con tale impostazione. Non sempre è facile ricollocare- anche cronologicamente- i discorsi e le relazioni su queste tematiche che vedono il Duca di Girasole proporre strategie d’intervento sulla formazione architettonica a Napoli, dare indicazioni sui possibili ammodernamenti degli Istituti d’Arte Napoletani e relazionare sulla Real Stazione Sperimentale per le industrie della Ceramica e della Vetrificazione. È comunque indubbio che, a partire dai primissimi anni venti, Carlo Giovene orienti sempre più le sue azioni verso interventi che definirei politici, rivolti alla città ed al suo sviluppo. I musei sono i tasselli visibili di un complessivo progetto d’intervento su Napoli che coinvolge la sfera urbanistica, la formazione professionale e la produzione industriale individuando, come filo conduttore, il patrimonio culturale che è, per il nostro, vero elemento d’identità e di coesione di un territorio: la sua conservazione, il suo studio e la sua comunicazione, strumenti decisivi per lo sviluppo economico dei luoghi. Ma la “messa in valore” del patrimonio culturale, anche ai fini della sua valorizzazione economica, non può più prescindere da studi accorti e documentati. È veramente interessante notare come Giovene, svestendo i panni del collezionista (forse anche per le sopraggiunte difficoltà economiche), scelga la strada della ricerca e della divulgazione andando a colmare quei “vuoti” di conoscenza che limitavano il concreto apprezzamento degli oggetti d’arte applicata esposti nei suoi musei .Se alla riscoperta della ceramica e della porcellana napoletana avevano dato un notevole contributo, già dalla metà dell’Ottocento, Camillo Minieri Riccio, Giuseppe Novi, Ludovico De la Ville Sur-Yllon e il più volte citato Tesorone, mancava, invece, qualsiasi riflessione sul mobilio, una delle espressioni più tangibili della società e del costume di un’epoca. Gli studi sul mobilio non erano certo una novità per molta parte d’Italia e lo sviluppo dei Musei Artistici Industriali spesso dotati di officine di stipetteria (come quello di Napoli, ad esempio) aveva più volte fatto nascere la necessità di approfondire la ricerca sui mobili che «non meno dell’architettura fanno conoscere la civilizzazione di un popolo e ne riflettono i costumi». Per Napoli, e in generale per l’Italia meridionale, nulla era però emerso nella pur
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vivace riflessione di fine ottocento sulle arti applicate48 né dai contributi di quanti avevano portato nel nuovo secolo il dibattito sulle arti utili. Carlo Giovene, architetto, non poté non risentire della vivace disputa che dalle arti applicate giunse – attraverso Boito – alla riconsiderazione del ruolo delle arti decorative nelle Scuole di Architettura ed è molto probabile che abbia anche seguito e condiviso l’idea di Gustavo Giovannoni “dell’architetto integrale” che porterà, negli anni trenta, alla proposta d’inserire nell’ordinamento didattico della scuola di Architettura di Roma insegnamenti come Arredamento e decorazioni d’interni e Arredamento degli ambienti. Il saggio di Giovene dedicato alla “mobilia” settecentesca e pubblicato, nelle pagine della rivista «Architettura e arti decorative»49 fondata con Piacentini dallo stesso Giovannoni, sembrerebbe confermare questa affinità di vedute.
La Mobilia Napoletana e i lavori affini nel Settecento è un contributo di circa trenta pagine, corredato da splendide fotografie, che- per la prima volta- offre “una preziosa antologia di esemplari appartenenti a collezioni pubbliche e private, oltre che a chiese e monasteri, distinguendoli per tipi”. La citazione è di Antonella Putaturo Murano che, nel 1977, lamenterà ancora l’assenza di studi adeguati sul mobile napoletano50 e la necessità di ricostruire la “vicenda di una produzione che, oltre a non essere inferiore né per qualità né per quantità a quelle degli altri centri italiani, si contraddistingue per una sua particolare adesione ai più vari portati culturali del Settecento”. Lo studio del mobile – ricorda la studiosa –«deve soprattutto partire dal presupposto che l’arredamento, del quale esso è parte essenziale, costituisce uno ‘status symbol’ dell’individuo di fronte alla società. Per giungere ad una conoscenza piena del mobile occorre vederlo inserito nell’ambiente per il quale era stato creato, ricorrendo a fonti documentarie, a testimonianze iconografiche e agli interni di case nobili, borghesi e popolari dei quali è possibile avere conoscenza. Per Napoli, non si è riusciti purtroppo a reperire esemplari utili alla conoscenza del mobile popolare, ma solo per quello che arredò case aristocratiche, conventi e sedi di istituzioni pubbliche e per l’altro destinato al ceto medio, documenti d’archivio e dipinti, oltre a numerosi pezzi e complessi finora in gran parte passati inosservati, hanno permesso di ricostruirne la vicenda e di delineare di questa un quadro nel quale la produzione artistica è stata vista in relazione alla società e perciò alle scelte delle varie categorie di committenti, alla posizione degli artigiani, alla parte che architetti e artisti vari ebbero nello svolgimento di un’arte particolarmente legata alla vita»51.
Il saggio pubblicato nella rivista di Giovannoni risulta molto lontano da questo approccioproponendosi, per lo più, come una “carrellata” di esemplari affiancata da un veloce testo esplicativo privo di affondi storici e apparentemente supportato dal solo occhio” del conoscitore. Tra le carte dell’Archivio Giovene, tuttavia, è conservato un manoscritto, purtroppo privo di alcune pagine, senza data ma probabilmente della fine degli anni Venti, intitolato Mobili e altri lavori in legno nel Mezzogiorno d’Italia che il nostro non pubblicò pur essendo evidentemente un testo già immaginato per la stampa e corredato di fotografie e note52.
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L’approccio alla storia del mobile napoletano è molto diverso da quello dell’articolo pubblicato e mira a coprire un arco cronologico molto più ampio del Settecento tentando -attraverso lo studio di fonti documentarie e il confronto con quanto conservato nei musei, nei conventi, nelle chiese o nelle case private- un’ampia ricostruzione della “storia completa dell’arte del mobile nel mezzogiorno d’Italia”. Erano anni in cui, almeno una parte della produzione italiana di mobili poteva godere di studi e pubblicazioni: Von Bode – sicuro riferimento di Giovene- aveva pubblicato nel 1920 il suo Italienische Hausmöbel der Renaissance, e diversi altri studiosi (P. Toesca, A. Pedrini, M. Tinti) stavano avviando una rilettura della produzione italiana orientata prevalentemente all’Italia centro-settentrionale. Pur consapevole dei danni legati ad “un attivissimo commercio antiquario, durato, senza controllo, per cinquant’anni e più, [che] ha dispersi per tutta Europa i campioni più belli, tacendone o falsandone la origine, secondo la convenienza commerciale del momento”53, Giovene avvia un interessante tentativo di ricostruzione storica attingendo “ai rari campioni di mobili rimasti nella regione”. Il suo racconto parte “dall’età di mezzo” e dal “superbo rigoglio d’arte di cui godette l’Italia meridionale dall’ottavo al tredicesimo secolo e che dovette avere il suo centro propulsore nella Campania, sotto la guida del monachesimo benedettino”. La ricerca è evidentemente condotta de visu e tenta, per le varie epoche, un costante confronto con le caratteristiche dell’architettura e più in generale della cultura del tempo.
«Nei conventi della regione, ove un profondo fervore religioso riuniva uomini di ogni classe, già forse nell’ottavo secolo, e certamente ai primi del dodicesimo, si eseguono lavori sontuosi in legno, troni abbaziali, cori per le adunate dei monaci e leggii, mentre nella più lontana Puglia nel 13° secolo la sedia episcopale è ancora scolpita nella pietra, come si vede a Canosa e a Monte S. Angelo. E, forse ciò dipese dalla maggiore facilità di ottenere nella Regione campana adatte qualità di legni, rare o mancanti in parte della zona pugliese. Carlo I d’Angiò, adunque, trovò tutta la regione meridionale, dagli Abruzzi alla estrema puglia, in una stupenda fioritura d’arte quando le impose il suo dominio. Era Napoli tra le città più ricche e fastose d’Europa ed aveva pur risentito del rude ma buon governo di Federico II, che aveva fondato ivi la Università piuttosto che nella sua capitale. Gli artisti francesi chiamati dai nuovi dominatori, e quelli chiamati un secolo dopo da Alfonso d’Aragona, per paesana vanagloria e per imprimere i segni delle passate dominazioni sempre turbarono, colla imposizione di un sentimento nuovo ed estraneo, lo svolgimento di un’arte che già aveva un magnifico sviluppo».
All’accurata ricognizione dei luoghi – attestata anche dalle numerose fotografie che in parte si pubblicano nel testo – Giovene unisce stavolta la ricerca e lo studio delle fonti d’archivio e bibliografiche: Summonte, innanzitutto, e la sua lunga lettera a Marcantonio Michiel (la cui edizione critica fu curata da Fausto Nicolini nel 192554) ma anche i Filangieri (Gaetano ed Antonio) e l’abate storico benedettino Paul Pierre Marie Guillame.
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Molti dei rimandi in nota segnalati nel testo erano probabilmente su di un foglio andato perduto per cui resta difficile risalire a tutti i suoi riferimenti bibliografici ma è evidente, rispetto al saggio pubblicato, un ulteriore affinamento della capacità di lettura delle caratteristiche stilistiche dell’opera e la volontà di allargare lo sguardo alla cultura artistica del periodo preso in considerazione. Interessanti sono, ad esempio, i confronti stilistici tra codici miniati e dettagli ornamentali (“Salvo a voler ammettere una resistenza di forme tradizionali per altri due secoli – scrive – poco probabile, perché lo stile italo-longobardo tra l’ottavo ed il dodicesimo secolo, specialmente dopo cessato il dominio di quel popolo, si sciolse in forme più svelte di quelle del trono di Montevergine, come dimostra una tavoletta intagliata, forse frammento di postergale, rinvenuta nel 1880 dal dotto benedettino D. Oderisio Piscicelli nella Chiesa madre di Castellano del Volturno. È questa tavoletta certamente lavoro di un monaco artista che trasse l’ispirazione dalle ricche alluminature che ornano gli antifonari dell’abbazia di Montecassino nell’11 sec. e che sono appunto definiti di carattere longobardo-cassinese. L’intaglio serba un certo stile tondeggiante e calligrafico che è proprio di quelle miniature; simili sono gli intrecci; simili nella caratteristica stilizzazione le fiere racchiuse nelle capricciose volute.”) e i più ovvi riferimenti alla scultura in marmo. Quel che appare evidente è la volontà di scrivere un racconto, la storia di un’arte locale che s’arricchisce anche grazie a stimoli esterni ma mantiene inalterata una sua identità, una specificità “a provare la genialità, il gusto, l’abilità di mano degli artefici meridionali e a definire i caratteri dell’arte loro, le opere di natura stabile, come cori di chiese, armadi di sacrestia, battenti di porte e simili”. Dalla collezione privata al museo, dal museo alla città intesa come luogo d’intervento attivo cui il museo può servire perché luogo di confronto e di ampia diffusione di sollecitazioni e modelli utili a resuscitare e rilanciare le arti decorative ponendo un argine alla decadenza dei prodotti industriali italiani. Riecheggiano, negli obiettivi individuati da Giovene per Sorrento, gli intenti già presenti nel manifesto stilato dal comitato promotore della grande esposizione di Torino del 1902 che aveva raccolto e trasportato, nel nuovo secolo, la tradizione plurisecolare dell’artigianato artistico in Italia come un’eredità produttiva e artistica di grande rilievo che doveva “aprirsi ai meccanismi dell’industria e della produzione seriale, abbandonando eclettismi e formule legate all’artigianato artistico ormai obsoleto”. 55 È questo suo sentire unito alla competenza, evidentemente riconosciuta dai conoscitori, che lo portò ad essere – come già accennato prima – tra i protagonisti della Mostra del Settecento a Venezia56, evento diretto da Nino Barbantini finalizzato a colmare una lacuna che non riguardava più solo la pittura italiana ma l’insieme della produzione artistica del XVIII secolo57. Affresco completo del Settecento italiano, la mostra si caratterizzò per la decisa apertura alle arti applicate e per l’allestimento di ambientazione. Il Museo Correale, di cui molti pezzi furono esposti in mostra, risultava essere, in quegli anni, tra i più nuovi ed aggiornati musei italiani.
100 CAPITOLO SECONDO
2.4 La direzione del Museo Correale: alcune riflessioni a margine
L’azione del Duca di Girasole per il Correale di Sorrento non si limitò al solo restauro dello stabile e all’allestimento del percorso ma riguardò la gestione complessiva dell’istituto. Giovene, direttore del museo fino alla morte, anche in considerazione delle peculiarità giuridiche dell’istituto, seppe effettuare scelte molto interessanti sulle quali vale la pena effettuare alcune riflessioni.
Come già detto prima, l’organizzazione del museo e il collocamento degli oggetti vengono affidati a Carlo Giovene nel 191858 ed è quindi già ascrivibile a lui l’organizzazione complessiva degli spazi che si deduce dai verbali del Consiglio di amministrazione con cui gli viene affidato “l’oneroso incarico di dirigere il collocamento del patrimonio artistico con la sua ben nota competenza” 59: «Terranei- Direzione ed amministrazione, raccolta di marmi, nelle stanze e nell’atrio, abitazione del custode-giardiniere; 1° piano- Mobili, quadri ed oggetti d’arte, abitazione pel conservatore, quartino a nord. Idem del 1 custode nelle stanze a sud, con ingresso speciale dalla scala grande. 2° piano – Mobili, quadri ed oggetti d’arte. Biblioteca a nord- quartino per un 2 custode, a sud, con ingressi separato dalla scala»60. È, in verità, una descrizione abbastanza generica ma è molto probabile che Giovene cercasse tempo per una valutazione più attenta delle necessità dei luoghi. La sua prima relazione programmatica è presentata, infatti, nel 1920. Al di là di precisazioni legate ai costi complessivi61 e alla necessità di affidare i lavori a “persona che goda la piena fiducia degli amministratori”, l’attenzione dell’architetto-restauratore è subito posta sugli indispensabili lavori atti ad “assicurare la stabilità e la conservazione del fabbricato. Devesi provvedere con urgenza al consolidamento delle fondazioni dell’angolo orientale, danneggiate dallo infiltramento di un pozzo nero, alle riparazioni del tetto e dei lastrici solari, al restauro delle facciate e della falegnameria esterna”62. Accanto alle considerazioni sulle urgenze del contenitore, la valutazione dell’insufficienza degli spazi: “deve essere base – ricorda – il concetto della massima utilizzazione dello spazio”. La villa è inadatta a contenere nella “maniera desiderabile” tutta la raccolta artistica «dovendosi pur provvedere ai locali indispensabili ai custodi che debbono abitare nello stabile» ed a mobili per contenere la raccolta dei libri offerta da Manfredi Fasulo. La sua proposta prevede comunque diversi adattamenti della preesistenza, per realizzare piccoli appartamenti, per recuperare altezza alle stanze, «per formare – al piano terra – un unico ambiente adattato ad accogliere buona parte dei marmi appartenenti al Municipio di Sorrento». A conferma del grande lavoro di ripensamento in chiave museografica degli spazi domestici, il progetto prevede di “ procedere a rettifica ed ampliamento di molti vani, specialmente al 2° piano, per creare le condizioni di euritmia, di disposizione e di luce, indispensabili pel Museo” e di eseguire lavori di decorazione del-
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l’intero fabbricato (“presenti in forma decorosa, ma semplice”). In linea con un’idea di museo che non è solo spazio espositivo ma anche centro di attività e di ricerca, Giovene individua tre locali per la biblioteca ed alcuni spazi per l’amministrazione e per l’archivio.
Con la biblioteca del museo, così come con la sezione dei marmi, si assiste – tra l’altro – ad una progressiva tendenza all’acquisizione di materiali estranei alla collezione Correale ma in grado di rafforzare il ruolo del museo come spazio di rappresentazione della storia di una famiglia strettamente connessa alla storia dei luoghi63. L’attività di restauro coinvolge, oltre alla sede, anche alcuni collezioni: “il restauro degli oggetti formanti la raccolta è indispensabile per gran parte dei mobili, per parecchi quadri e per pochi bronzi e porcellane. Da rimandarsi, senza inconvenienti, ad un secondo tempo per tutti i rimanenti oggetti. È indispensabile però di provvedere ad un numero sufficiente di vetrine per contenere gli oggetti”. Il Consiglio, dopo attente riflessioni sul costo complessivo dell’intervento e sulle modalità di pagamento (che vedono, ed è un dato molto interessante, anche l’intervento della Banca Generale Sorrentina) approva seduta stante il piano, e Giovene, in qualità di “ordinatore del museo”, è autorizzato “alla esecuzione dei restauri ed allo acquisto delle vetrine per gli oggetti nella maniera da lui proposta”. Sia pur con difficoltà, legate soprattutto ai costi dei lavori e degli interventi di restauro64, i lavori vengono completati nel 1923. Nel gennaio del 1924, il museo si prepara all’apertura con un organico in parte diverso da quello inizialmente individuato: un conservatore- segretario, un custode-giardiniere, un aiuto custode per i biglietti e tre guide-custodi di piano65.
Segnale evidente, quest’ultimo, di un’attenzione nuova alla necessità d’informare il pubblico attraverso personale di contatto in grado di andare oltre le funzioni di controllo delle sale e delle collezioni e che comporta una variazione al Regolamento del 1918 “basato sulle disposizioni testamentarie dei fondatori”66 affidata al Direttore. Il 23 marzo del 1924, Giovene illustra il nuovo Regolamento del Museo “adattando al nuovo stato di cose tutte le disposizioni occorrenti all’interno andamento del Museo, specie per le norme circa il servizio del personale”.
Negli atti del Consiglio il Regolamento e i suoi emendamenti non sono interamente descritti ma emergono comunque interessanti spunti legati all’organizzazione del museo, alle modalità di registrazione della presenza del pubblico, al ruolo dei custodi ecc. di volta in volta proposti dal Direttore. È di quest’ultimo, nel 1927, la richiesta di modificare il costo del biglietto d’ingresso da 3 a 5 lire “restando però la percentuale di 2 l. per ciascun biglietto a favore dei portieri degli alberghi, e tale aumento in considerazione dello scarso reddito avvenuto per la vendita dei biglietti nel 1927 ed in relazione a simile modifica attuata da altri Musei e Gallerie d’Arte in Italia”. Evidente, in questa breve nota, da un lato la costante attenzione al panorama museale italiano con cui il Correale ambisce a competere, dall’altro la consapevolezza del ruolo del turista in un territorio come Sorrento67 e la conseguente necessità di rivolgersi soprattutto a questo “target” da attirare attraverso la partecipazione “assistita” dei portieri d’albergo, “promoters” e procacciatori del museo.
L’attenzione sui metodi più utili per attirare e fidelizzare il pubblico ricompare anche
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nel 1930, quando una richiesta dell’Ente Soggiorno e Cura di Sorrento vede Giovene sostenere un’attività che si avvicina molto a quanto fatto a Napoli per il Palazzo Reale. «Concessione di spiazzo nella Villa. Il Presidente, avendo riconosciuto legale il numero dei presenti, da la parola al Duca Giovene. Esso Direttore riferisce che gli è pervenuta un’istanza da parte dell’Ente Soggiorno e Cura in Sorrento, per la concessione di permesso ad organizzare un ritrovo serale estiva nella Villa di questo Museo, costruendo, all’uopo, uno spiazzo pavimentato di metri 4 X 8 in un punto da scegliersi d’accordo. E poiché tal cosa può riuscire utile alla conoscenza del Museo da parte della cittadinanza che, ancora in buon numero ne ignora la esistenza, ed essendo d’altro lato il detto Ente, già benemerito nei riguardi del Museo medesimo per adatte pubblicazioni reclamistiche e potendo anche nell’avvenire, per molti riguardi spiegare opera utile al suo sviluppo, esso direttore propone l’accoglimento dell’istanza. Il Consiglio, dopo analoga discussione accetta la istanza dell’ente suindicato, a condizione che, per la concessione gratuita dello spiazzo non debba desinare al Museo alcun essere di qualsiasi specie e che qualunque spesa, anche per eventuali compensi dovuti al personale, debba sempre rimanere a carico dell’Ente Cura e Soggiorno. Stabilisce inoltre che detta concessione deve intendersi temporanea per la prima volta sino al 31 dicembre 1931 e poi innovabile di anno in anno».
Diversi gli spunti di notevole interesse che suggeriscono quanto Giovene fosse attento al dialogo con i differenti “portatori d’interesse” del territorio e alle trasformazioni sociali con le quali il museo deve necessariamente confrontarsi. Da sempre luogo privilegiato dal grand tour, la costiera Sorrentina è tra le mete consolidate del turismo novecentesco facilitato anche dalle norme fasciste sulle ferie forzate che – valutandone anche la ricaduta economica – allargano la pratica turistica ai ceti medi, aumentando il numeri dei “turisti” e comportando la trasformazione del “viaggio” in “vacanze” inteso come soggiorno stabile in una località. Le Aziende di Cura, soggiorno e turismo, nate nel 1926 (Sorrento sarà tra le prime Aziende riconosciute), sono un ulteriore e importante tassello della politica “turistica” del ventennio: supportano la costruzione e il miglioramento di comunicazioni di prevalente interesse turistico; incoraggiano iniziative che avessero avuto riflesso sull’incremento del movimento di forestieri, la pubblicità e la propaganda intesa a favorire l’afflusso dei turisti. Possono essere, in altre parole, enti decisivi per lo sviluppo locale. Giovene punta immediatamente ad un dialogo costruttivo con esse e non credo affatto che ciò nascesse da una qualche forma di compiacenza al regime bensì dalla consapevolezza di quel nuovo ruolo sociale che poteva esser dato al museo ed al patrimonio culturale che aveva già provveduto a difendere in occasione della prima Biennale napoletana. Non a caso “propone che ai dopolavoristi sia concessa la entrata nel museo per soli cent. 50 e che simile concessione venga estesa alle comitive di gitanti organizzati da Enti di Turismo e altre società.”68 Ma c’è un altro aspetto che credo sia utile rimarcare: la consapevolezza della scarsa presenza dei visitatori più prossimi al museo, gli
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abitanti della stessa Sorrento che avrebbero potuto, grazie a questo nuovo utilizzo degli spazi esterni della Villa (così com’era stato fatto a Palazzo Reale), trarre occasione per visitare e conoscere il museo. È evidente che Giovene abbia intuito la necessità d’interventi finalizzati all’innovazione organizzativa dell’intero sistema di utilizzazione dei beni culturali territoriale e a Sorrento, dove l’autonomia del Museo e l’indipendenza dai vincoli statali lo permetteva, tentò di avviare politiche e strategie di fruizione e valorizzazione innovative non solo per quel che concerne il percorso espositivo del museo ma anche per le sue pertinenze, “tessere” in grado di contribuire – con adeguate sinergie – ad ampliare lo sviluppo di un territorio attivando, attraverso il pieno coinvolgimento della cittadinanza e dei vari attori locali, un processo di sviluppo coerente con il rispetto della cultura storica del patrimonio e con l’identità locale. Giovene, lo abbiamo detto anche altrove, guarda al museo come “trampolino per il rinnovamento” ma, è giusto sottolinearlo, affida il messaggio educativo soprattutto all’allestimento ed al supporto bibliografico. Intuisce sicuramente che il museo può essere un “community service volto ad offrire conoscenze” anche pratiche ma, come un po’ tutta l’Europa del tempo, di fatto anch’egli non è davvero pronto ad affrontare la questione del grande pubblico.
«È da rilevare – scrive al riguardo Patrizia Dragoni – che il mutamento delle priorità a vantaggio della funzione sociale rispetto a quella conservativa e monumentale si traduce in proposte di innovazione relative specialmente all’architettura museale, alla destinazione di spazi di servizio per i visitatori, all’ordinamento delle collezioni, agli allestimenti espositivi, ma non anche per quanto concerne il sistema di valori sociali e culturali che sta alla base del rapporto da stabilire con il pubblico. È ben vero, quindi, che la questione della funzione sociale del museo viene avvertita con grande intensità in particolare negli anni Venti e Trenta del Novecento, ma circa la qualità delle finalità sociali, dell’impostazione culturale e dei contenuti della comunicazione con il pubblico la variazione rispetto al passato è assai marginale»69. Cosa avrebbe potuto ancora realizzare a Sorrento, dove il territorio e lo status giuridico del museo gli consentivano una possibilità di sperimentazione resa altrove impossibile dai vincoli statali, è difficile dirlo. Il primo luglio del 1933, Carlo Giovene muore. Il Presidente del Consiglio di Amministrazione del museo lo ricorderà in questo modo: «Se gli attuali consiglieri possono dai risultati ottenuti e dalla constatazione dello stato nel quale oggi si trova il museo comprendere il valore dell’opera del Duca Giovene, egli che con lui si trovò fin dal primo momento, quando gli oggetti si trovavano distribuiti fra la villa di Sorrento e l’abitazione dei Correale in Napoli, quando la villa si trovava sistemata per uso di abitazione, quando era necessario sollecitare l’inizio e la prosecuzione dei lavori od affermare la creazione del Museo per evitare non impossibile giudizio da parte degli eredi naturali, quando questo lavoro per tante ragioni delicato e difficoltoso che andava dai progetti di sistemazione dell’edificio alla rac-
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colta, inventario, imballaggio di numerosissimi oggetti esistenti nell’abitazione di Napoli e trasferiti a Sorrento, lavoro tutto eseguito dal Duca Giovene con le sue proprie mani e con verace intelletto ed amore, fra le difficoltà degli uomini e di quei tempi, quando egli ripensa a tutto questo lavoro che per circa due anni lo tenne costantemente avvinto, sottraendogli tanta parte del suo tempo, che pur doveva dedicare alla importante azienda familiare, quando, dice, egli ripensa a quel fruttuoso periodo gli si rinnova ne l’animo la grande riconoscenza per lui, perché ben pochi potevano esser capaci e nello stesso tempo volenterosi quanto lui per portare a compimento l’opera. Ma non basta. Inaugurato il Museo era mestieri assicurarne il funzionamento e qui certo se non fosse stato per l’affidamento che la sua capacità poteva dare e se non fosse stato per la sua perseverante insistenza col Comm. Tommaso Astarita per parte della Banca Sorrentina non avrebbe largamente messo a disposizione a favorevoli condizioni i mezzi necessari ad iniziare la vita del museo. Ma il bilancio era sempre mancante di elasticità, la crisi del forestiero, annullando quasi l’assegnamento che a buon diritto si era fatto sulle entrate dei visitatori, aveva peggiorate le nostre previsioni. Venne al richiesta da parte del Comune di una porzione di terreno per la costruzione del campo sportivo e le trattative durarono ben due anni, ma il Duca Giovene seppe così bene sostenere gli interessi del Museo che in definitiva le entrate del Museo ne sono rimaste avvantaggiate ed il Bilancio si può dire assicurato.
È bene che di tante benemerenze rimanga nel Museo un ricordo duraturo, a tal fine egli propone che venga murata al primo piano in luogo da decidersi una targa marmorea che dica ai visitatori di oggi e di domani quel che il museo deve di riconoscenza al suo primo direttore»70.
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Note
1 R. D. che costituisce in ente morale il museo Correale di Sorrento del 18 febbraio 1904. G.U. del Regno del 30 luglio 1904 n. 178.
2 La prima pubblicazione sul museo Correale risale al 1903. Il Museo è ancora “su carta” ma «Napoli Nobilissima» dedica alla donazione un ampio articolo. G. de Montemayor, Il Museo Correale a Sorrento («Napoli Nobilissima», 1903, vol XII, pp- 9-12). Le pubblicazioni successive risalgono invece agli anni della sua apertura al pubblico ed all’attività svolta da Carlo Giovene per promuovere il museo da lui diretto cfr. S. Colonna di Paliano- C. Giovene di Girasole, Discorsi, Napoli 1924. Nel 1938 G. Morazzoni ci offre l’immagine del Correale più fedele all’allestimento di Giovene con il volume Il Museo Correale di Sorrento, Roma 1938. Nel 1953 ne descrive il riordinamento postbellico Causa, Il riordinamento del Museo Correale di Sorrento, in «Bollettino d’arte del Ministero della pubblica istruzione », n. 1, gennaio – marzo 1953, pp. 90-95. In seguito molto si deve agli studi di Rubina Cariello a lungo direttrice dell’istituto sorrentino. Tra i testi di maggiore rilievo cui si rimanda, anche per ulteriori approfondimenti bibliografici,Cariello (a cura di), Il Museo Correale a Sorrento, Napoli 1996 ed il più recente catalogo della mostra Teodoro Duclère
1812-1869 a cura di L. Martorelli, M.Russo, A.Fienga, Sorrento 2013.
3 La definizione di casa – museo data dal Comitato internazione Dimore storiche Museo (DEMHIST) è molto ampia e potrebbe tranquillamente adattarsi anche al Museo Correale a patto che la si inserisca nella categoria delle Collection houses (the former home of a collector or a house now used to show a collection) chiarendone così il suo essere di centro di raccolta di testimonianze familiari ma anche apposita creazione di un percorso che, tuttavia, non è nato dalla volontà di racconto del donatore bensì dalla scelta dell’allestitore.
4 Alle quali si sono poi aggiunte altre piccole raccolte. Cfr. R. Cariello, op. cit.
5 Su questo cfr. N. Barrella, La forma delle idee… cit., in particolare p. 27 e ss.
6 Si legga, ad esempio, l’art. 16 dello statuto che recita: «Il Museo sarà aperto al pubblico mediante una tassa d’ingresso che sarà stabilita dal Consiglio di Amministrazione. Una volta per settimana, in giorno non festivo, sarà aperto al pubblico gratuitamente, specialmente per dare agio agli artisti delle arti maggiori ed artisti delle arti industriali da fare, con permesso del Direttore, studi sugli oggetti che costituiscono il Museo», Statuto del Museo Correale.
7 G. de Montemayor, op. cit., p. 10.
8 Nel testamento Pompeo precisa: “nell’ipotesi che il mio amato fratello non attuasse il divisamento […] voglio che questa mia piccola raccolta venga piazzata e custodita nel primo piano della mia casa alla strada S. Cesareo in Sorrento e propriamente in quella parte di essa, che trovasi tra lo ingresso principale della scala grande e scala piccola, ed è per ciò che questa più grande parte del primo piano, dovendo servire per tale scopo, la escludo nell’ipotesi suddetta, dal patrimonio che dispongo a favore dei miei eredi”. Da G. de Montemayor, op. cit., p. 11.
9 La città di Sorrento ha, nel 1922, un Museo Civico Comunale di cui dà notizia Francesco Pellati. «La raccolta di marmi- si legge nel volume dedicato a musei e gallerie d’Italia- costituente il Museo è nella sede dell’ex Seggio Dominova, proprietà comunale, edificio del secolo XIV, in Via san Cesareo. Quasi tutti i frammenti erano incastrati sotto l’atrio dell’Arcivescovado o nel supportico della chiesa di Sant’Antonino, e le due tombe servivano da vasche per fontane. Con deliberazione del Consiglio Comunale di Sorrento, del 10 settembre 1864, tutti i marmi furono riuniti nel posto ove ora si trovano. Nel 15 ottobre 1896 il vice Ispettore onorario dei Monumenti in Sorrento sig. Manfredi Fasulo, ne fece il primo inventario descrittivo e dal Sindaco ne fu data consegna al presidente della Società operaia, inventario e consegna rinnovati il 27 marzo 1914». La scheda di Pellati, che elenca anche i materiali esposti, colloca negli anni immediatamente successivi all’Unità la nascita di un museo civico probabilmente contemporaneo alla pubblicazione della Topografia storico-archeologica della Penisola Sorrentina di Bartolommeo Capasso che ne fu, verosimilmente, il principale sostenitore (cfr. N. Barrella, Bartolommeo Capasso e la tutela dei monumenti, in G. Vitolo (a cura di), Bartolommeo Capasso. Storia, filologia, erudizione nella Napoli dell’Ottocento, Napoli 2005, pp.245-270. Il riferimento a Manfredi Fasulo consente invece di cogliere i nessi che vennero poi a crearsi con il Museo Correale che ottenne i pezzi dal Museo Nazionale di Napoli dov’erano stati portati per restauro e pulizia, nel 1913, da Vittorio Spinazzola. È interessante notare che Pellati, nel 1922, dà anche indicazioni sul Museo Correale, all’epoca non ancora aperto al pubblico: «Il Museo Correale- scrive- trae origine dai testamenti 28 gennaio e 15 settembre 1900, per i quali i fratelli conte Alfredo e cav. Pompeo Correale di Terranova, legavano alla città di Sorrento le ricche collezioni artistiche da essi possedute, nonché il loro palazzo quale sede perpetua del Museo ed un’adeguata donazione. Il Museo Correale fu eretto in Ente Morale col R. D. 18 febbraio 1904 che ne approvava anche lo statuto. Il Museo, che sarà aperto al pubblico, soltanto dopo la morte della vedova del conte Alfredo Correale, comprenderà quadri e disegni, particolarmente di artisti napoletani dei sec. XIX, mobili, marmi, argenterie, vetri, orologi, ecc., nonché una raccolta
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di porcellane con tipi dell’estremo Oriente, di Sassonia, di Sévres, di Napoli, ecc.». Il testo di Pellati, iniziato nel 1910, fu scritto probabilmente prima della morte della vedova di Alfredo avvenuta, come si è detto, nel 1917. F.Pellati, I Musei e le Gallerie d’Italia. Notizie storiche e descrittive, Roma 1922, pp. 389-391.
10 Faccio riferimento al titolo del libro di A. Berrino, I Correale. Patrizi sorrentini, Napoli 2000 cui si rimanda per un’analisi attenta della storia della famiglia e per i documenti d’archivio che il museo conserva.
11 Molto interessante è la riflessione sulla presenza di oggetti d’arte applicata che «accrescerà lustro e decoro della città di Sorrento e riuscirà di grande utilità ai numerosi cultori dell’arte della tarsia, dell’intaglio e della stipetteria, e affinandone il gusto artistico ed ispirando le loro opere ai modelli di ogni genere che troveranno largamente qui raccolti ed ordinati». F. Pellati, op. cit., p. 390.
12 A, Berrino, op.cit., p. 32.
13 Verbale della seduta del 18 ottobre 1918 in Deliberazioni del di Amministrazione, Vol. I 1917-1948 (Presidenti Cariello e Colonna), Archivio Storico del Museo Correale di Sorrento in seguito indicato solo come Deliberazioni.
14 Ibidem.
15 Curriculum, cit.
16 Autobiografia, p. 106.
17 Ivi, p. 121.
18 Ivi, p. 120.
19 A.M. Banti, Note sulle nobiltà nell’Italia dell’Ottocento, in «Meridiana», n.19, 1994, pp. 13-27 cit. p. 17.
20 Ivi, p. 123.
21 Curriculum, par. 2 il Museo Correale di Terranova.
22 Ivi.
23 Museo Correale di Terranova “Sorrento”. Discorsi in ricordo della inaugurazione avvenuta il 10 maggio 1924, Napoli 1924 pp. 20 e ss.
24 Pubblicata tra il 1924 e il 1929 ne “la Critica”, la Storia apparve poi, per i tipi di Laterza, nel 1929.
25 B. Croce, Storia dell’Italia nell’età barocca, Bari 1926 p. 25.
26 Museo Correale di Terranova…. cit., p. 27.
27 Ibidem.
28 Se per la pittura e la scultura meridionale barocca esistevano già gli scritti di Aldo de Rinaldis e le ricerche documentarie di Giuseppe Ceci, estremamente carente era la riflessione sulle arti applicate e in particolare sui mobili. Giovene, lo vedremo in seguito, sarà il primo ad occuparsene.
29 Giovene, ne parleremo nel prossimo capitolo, è a Venezia come Direttore del Museo Duca di Martina.
30 L’unica citazione che Giovene riporta nel suo Discorso è relativa al Bernardo Cavallino di Aldo de Rinaldis.
31 F. Amico, Gli studi sul seicento alla vigilia della mostra del 1922, in G. de Lorenzi (a cura di), Arte e critica in Italia nella prima metà dl Novecento, Gangemi editore, Roma 2011, pp. 46 4 ss.
32 U. Ojetti, L’arte è di tutti ovvero le stelle non sono degli astronomi, in «Corriere della sera», 27 novembre 1919, p.3. L’articolo è ampiamente citato in M.Nezzo, Critica d’arte in guerra. Ojetti 1914-1920, Vicenza 2003, pp. 135-137.
33 Museo Correale di Terranova. Cit. pp. 28 e ss.
34 Cfr. S.Cecchini, Musei parlanti. Corrado Ricci e la sfida di comunicare ad un ampio pubblico, in «Il Capitale culturale»,
VIII (2013), pp. 51-68.
35 Per il dibattito sulla forma del museo tra le due guerre F. Poncelet, Regards actuels sur la muséographie d’Entre-deuxguerres, CeROArt. Conservazion, exposition, Restauration d’object d’art, 2, 2008. Sul dibattito relativo al rapporto pubblico/musei nella prima metà del Novecento, cfr. anche P. Dragoni, Accessible à tous: la rivista «Museion» per la promozione del ruolo sociale dei musei negli anni ’30 del Novecento, cit.
36 Ivi.
37 Molta parte degli studi italiani attribuiscono questo ripensamento soprattutto agli anni Trenta ed all’epoca delle grandi Mostre fasciste. Giusto invece immaginare che questa indubbia svolta sia solo il momento in cui si cominciano a raccogliere i frutti di un lavoro iniziato almeno dieci anni prima.
38 F. Poncelet, op. cit.
39 Fa pensare al Museo Correale quanto scritto a proposito di Casa Cavassa: «Ma soprattutto gran parte di questi casi di trasformazione di collezioni private in museo trae impulso da un analogo tema politico: la preoccupazione, che costituisce una sorta di nota dominante nelle riflessioni delle grandi famiglie aristocratiche finanziarie europee di fine secolo, per la perdita di saldi orizzonti nell’attività di governo a seguito del declino del potere della nobiltà di ancien régime e per l’incapacità, da parte delle nuove classi dirigenti, di elaborare un’ideologia sostitutiva che permettesse
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di porre convincenti freni all’insorgenza di classi subordinate. Operazioni come Casa Cavassa, il cui tono ricorda il nostalgico gusto crepuscolare per il pastiche e la rievocazione di costumanze perdute della nobiltà piemontese che anima le pagine dei Ricordi di Massimo d’Azeglio», G. Kannés, Premessa, in Id. (a cura di), Case museo ed allestimenti d’epoca. Interventi di recupero museografico a confronto, Torino 2003, pp. 15-26 p. 20.
40 L. Possiak, Berichte aus den Kunstzentren. Das Museo Correale in Sorrent, in «Belvedere. Sonderabdruck», 178-179. L’estratto, conservato presso l’Archivio privato Giovene, non presenta data (ma 1925) né numero.
41 Autobiografia, cit.
42 La citazione di R. Pavone è citata da A. Mottola Molfino, Case-museo intoccabili: istruzioni per l’uso, in G. Kannes (a
cura di), op. cit., p. 32.
43 Utilizzo un’espressione coniata per il Museo Bardini, da B.M. Tomasello, Il Museo di Stefano Bardini, in Museografia
italiana cit., p. 38.
44 G. Morazzoni, Il Museo Correale di Sorrento, Roma 1938, p. 10.
45 Sono le indicazioni date da Ojetti nel più volte citato articolo del 1919. Il catalogo, stampato nel 1924 a Milano, non ha autore.
46 Guida del Museo Correale di Sorrento, Milano 1924, p. 6.
47 Su questi argomenti cfr. G. Salvatori, Proposte di lettura delle arti applicate a Napoli fra ‘800 e ‘900: dal Museo Artistico Industriale alla Mostra d’Oltremare, in Giornata di studio Arti decorative e musei. L’Italia e l’Europa, Torino 2005, p.79. Al fine di valutare il rapporto con quanto su questi problemi si discuteva a Napoli cfr. anche L. Arbace, Da Museo Artistico Industriale a Regio Istituto d’Arte: contraddizioni e modernità di un’istituzione di regime, in M. Picone Petrusa (a cura di) Gli anni difficili… cit., pp. 85-94.
48 Tutto da approfondire, come si diceva già nel precedente capitolo, il rapporto Giovene e Giovanni Tesorone. Non escluderei affatto la conoscenza diretta delle sue teorie e andrebbe verificata – non mi è stato possibile approfondire anche questa linea di ricerca- la conoscenza della progetto per il Padiglione della Campania, Calabria e Basilicata all’esposizione di Roma del 1911, ideato da Tesorone. «Un’impresa decorativa – ha scritto Gaia Salvatori – per la quale lavorarono molti giovani che in quegli anni si stavano facendo conoscere in mostre autogestite e dallo spirito secessionistico […]che, coinvolgendo tutte le arti, comprese l’architettura, le arti plastiche, decorative e applicate, erano ispirate per lo più al criterio della progettazione globale secondo i dettami modernisti Si trattava di maestri e allievi insieme, artisti e architetti, accomunati peraltro da una formazione per molti versi comune. Va considerato, infatti, che anche la formazione degli architetti, ancora nel primo e secondo decennio del ‘900, oscillava tra Accademia e Scuola di applicazione per Ingegneri, dunque fra curricula formativi fondati sugli aspetti artistici, con impegni decorativi – coltivati nelle aule dell’Accademia – e corsi dalle caratteristiche prettamente tecnico-scientifiche. Troviamo così, a Napoli, impegnati più come docenti che nei cantieri pubblici, personalità artistiche di rilievo internazionale come l’udinese Raimondo D’Aronco o il siciliano Leonardo Paterna Baldizzi, maestri del Liberty che, sollecitati dall’«anelito all’opera d’arte totale», riservavano particolare attenzione, nei loro programmi di studio, proprio alla «Decorazione pittorica applicata». Dalle aule di scuola questa poteva trasferirsi, al massimo, a qualche decoro di interni (seguendo il programma del direttore Lionello Balestrieri del nuovo Real Istituto Artistico Industriale) – ex MAI – che privilegiava gli oggetti «semplici, utili, d’uso comune», anche se, tra anni Dieci e Venti, più che nella casa e i suoi arredi, nuovi fermenti delle arti applicate erano nei canali della pubblicità e della stampa con una seria e impegnata partecipazione degli artisti napoletani all’illustrazione grafica e al manifesto pubblicitario ben oltre i confini regionali, proprio mentre ci si serviva di rivendicazioni di tipo regionalistico per conquistare qualche spazio ai grandi appuntamenti espositivi internazionali come la Mostra d’Arte Decorativa di Monza del 1925. Rivendicare le risorse del localismo diventò, dunque, negli anni Venti e Trenta, un modo per difendere storia e tradizioni, anche e proprio per le arti decorative, dichiaratamente ‘popolari’, che richiamavano in causa l’artigianato, la sapienza di mestiere tramandata di generazione in generazione, che si cominciò a propagandare come valenza indispensabile allo sviluppo, risorsa economica e culturale». G. Salvatori, op. cit. Credo, anche considerando l’evidente matrice liberty di molte realizzazioni di Giovene di quegli anni, ch’egli abbia risentito non poco di queste riflessioni continuando a credere con forza nel connubio arte/industria che caratterizzò i suoi musei e sulla necessità del loro insegnamento che emerge nei suoi diversi appunti.
49 C. Giovene di Girasole, La mobilia napoletana e i lavori affini nel Settecento, in «Architettura e arti decorative», a.9 (1930) fasc. 7, pp. 288-321. La rivista di Giovannoni e Piacentini, com’è noto, si fa portavoce della linea di continuità teorica e figurativa con la tradizione del classicismo romantico e mira a contribuire alla realizzazione di una architettura italiana “moderna” ma “di stampo nazionale”. È la linea che Giovene ribadisce anche nei suoi scritti dedicati all’architettura (cfr. cap. I).
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50 A. Putaturo Murano, Il mobile napoletano del Settecento, Napoli 1977, p. 7. A partire dal testo della Putaturo Murano molto si è poi scritto e ricercato sul mobile napoletano. Rimando, anche per l’ampia bibliografia di riferimento, al volume di A.Gonzales Palacios, Nostalgia e invenzione. Arredi e arti decorative a Roma e Napoli nel Settecento, Milano,Skira, 2010.
51 Ivi, p. 12.
52 Il testo è pubblicato in appendice al presente volume. Non escludo comunque la possibilità che il testo sia stato pensato per la rivista «Architettura ed arti decorative» e sia stato poi tagliato per esigenze della redazione.
53 C. Giovene di Girasole, Mobili e altri lavori in legno nel Mezzogiorno d’Italia, manoscritto inedito s.l., s.a. (ma post
1925), Archivio Giovene.
54 La lettera fu rinvenuta tra le carte di Michiel ma rimanendo allo stato di manoscritto, non ebbe ampia circolazione. Alla fine del Settecento l’abate Lanzi pubblicò qualche brano della lettera, e nel 1861 Cicogna la ristampò nella sua opera, anche se non in versione integrale (Vita di Marcantonio Michiel, Venezia 1861, pp. 55-59). L’edizione critica di Fausto Nicolini (L’arte napoletana del Rinascimento e la lettera di Pietro Summonte a Marcantonio Michiel, Napoli 1925) ne favorì notevolmente la diffusione e l’utilizzo. Citata da Giovene anche rappresenta un termine ante quem non anche per il suo testo.
55 Cfr. V.Terraroli, Appunti sul dibattito del ruolo delle arti decorative negli anni Venti in Italia: da Ojetti a Papini, da Conti a D’Annunzio, da Sarfatti a Ponti, in V. Terraroli, F. Varallo, L. de Fanti (a cura di), L’arte nella storia. Contribuiti di critica e storia dell’ arte per Gianni Carlo Sciolla, Milano 2000, pp. 131-140. 56 G. Tomasella, Venezia 1929: la Mostra del Settecento Italiano, in E. Saccomani (a cura di), Il cielo, o qualcosa di più. Scritti per Adriano Mariuz, Padova 2007, pp. 220-228.
57 Accanto a Nino Barbantini, Giuseppe Fiocco, Matteo Marangoni, Roberto Longhi, Sergio Ortolani, Hermann Voss, Giuseppe Gatti Casazza, Carlo Giovene di Girasole, Giuseppe Morazzoni ed altri.
58 Deliberazioni, verbali del 16 febbraio 1918 e del 28 luglio 1918.
59 Deliberazioni, verbale del 29 agosto 1918.
60 Ibidem.
61 «i lavori da eseguirsi- si legge nel verbale- sebbene precisati nelle loro linee generali non sono tuttavia suscettibili tutti di esatta preventiva determinazione e […] dovendo essi rispondere al bisogno di ordinamento di una numerosa raccolta artistica la cui disposizione deve man mano ‘ svilupparsi anche attraverso variazioni e perfezionamenti successivi. Alla inevitabile indecisione circa i dettagli del progetto risponde una relativa indecisione di preventivo, cosicché non sarebbe possibile ben fissare i limiti di un regolare appalto. Inoltre il personale che dovrà essere addetto ai lavori, per imprevedibile necessità e data specialmente la ristrettezza dello spazio, dovrà spesso frequentare le adiacenze dei locali ove si trovano gli oggetti non ancora ordinati e forse anche i locali stessi cosicché non possono affidarsi i lavori a persona ignota, quale potrebbe presentarsi alle aste, ma debbono i lavori medesimi essere invece eseguiti da, mediante contratto di cottimo fiduciario.
62 Deliberazioni, Verbale del 22 gennaio 1920.
63 Deliberazioni, verbale del 29 agosto, punto n. 6 “Raccolta dei Marmi. In seguito il Presidente ha fatto dar lettura della nota del 23 agosto corrente n, 3286, con la quale il Regio Commissario del Comune, anche a nome della Onor. Soprintendenza ai monumenti di Napoli, rivolge invito a quest’amministrazione di accogliere in consegna, nei locali terranei del museo, mediante Inventario, i marmi antichi ora posti nell’atrio del ex Sedil Dominova, nonché quelli temporaneamente dati in consegna nel 1913 al Museo nazionale di Napoli per la migliore conservazione ed integrità di essi, con riserva della loro proprietà al Comune, i quali marmi costituiscono un pregevole patrimonio storico archeologico della città. Lo stesso Presidente fa rilevare che dal ricovero nel Museo Correale di detti marmi in numero di 80 pezzi, oltre quelli in temporaneo deposito nel Museo Nazionale di Napoli, i quali tutti documentano ancora la grandezza di Sorrento nelle epoche greca, romana, medievale, verrebbesi effettivamente non solo importanza al nostro Museo, il quale già possiede altri marmi della medesima natura, ma avvera altresì un desiderio espresso dai generosi fondatori dell’ente e trascritto all’articolo 7 dello statuto del marzo 1905”. Merita di essere segnalata, nella discussione che segue questo punto, la riflessione relativa al biglietto d’ingresso “ la tassa d’ingresso, si legge, dovrà essere depositata per intero ed esclusivamente all’Amministrazione del Museo stesso”. Al Comune, proprietario della raccolta, si riservano esclusivamente tessere d’ingresso gratuite per i componenti del Consiglio, l’Ingegnere e il Segretario Municipale. L’istituzione della Biblioteca viene invece discussa il 10 ottobre dello stesso anno. Interessante, a proposito delle modalità di incremento della stessa, quanto si legge nel verbale successivo circa la “3 disposizione del decreto 18 gennaio 1808 di Re Giuseppe Napoleone, per la raccolta in Sorrento, dei manoscritti originali del Poeta Torquato Tasso, con-
IL MUSEO CORREALE DI TERRANOVA A SORRENTO: CONTINUITÀ E INNOVAZIONE DEL MUSEO ARISTOCRATICO OTTOCENTESCO 109
servati nella Biblioteca di Napoli, con un esemplare di ogni edizione e traduzione delle sue opere. Esso Presidente propone di rivolgere istanze a S.E. Il Ministro della Pubblica Istruzione del Regno d’Italia per ottenerli. Come pure fa voto al governo del Re, perché nella trattativa di pace con l’Austria sia chiesta la restituzione della Gerusalemme Conquistata per conservare tale manoscritto tassiano nella Biblioteca di questa città natia del cantore delle Crociate. Chiede poi esso Presidente di essere altresì autorizzato a demandare le pubblicazioni della suindicata specie allocate in Municipio, al Circolo Sorrentino ed altri Enti, nonché a famiglie e persone che ne siano in possesso e di provvedere alla ristretta mobilia e sede provvisoria della Biblioteca nei locali del Museo.
64 Esula dai fini della ricerca la riflessione sulla gestione del Museo Correale ma mi piace segnalare che i verbali del Consiglio sono una straordinaria fonte di ricerca per comprendere costi ed organizzazione economica di un museo italiano del primo Novecento.
65 Deliberazioni, verbale del 4 gennaio 1924. In principio erano previsti al servizio del Museo oltre al Direttore, un Segretario f.f. Tesoriere, due custodi ed un giardiniere (art. 14 dello Statuto del Museo Correale).
66 Ibidem.
67 Il regime guarderà con particolare attenzione allo sviluppo turistico di Sorrento essendo la città che riceva più flussi stranieri. Per questa ragione, Sorrento sarà dotata di un’Azienda Autonoma sin dal 1926. Cfr. A.Berrino, Il Golfo di Napoli, in L’Italia e le sue Regioni, Roma, 2013, vol. II, pp. 611-618.
68 Deliberazioni, verbale del 26 luglio 1931.
69 P. Dragoni, Accessible… cit. p. 153.
70 Deliberazioni, verbale del 28 agosto 1933.
Fonte : PositanoNews.it